Magistrato sin dal 2002, per circa dieci anni ha svolto le funzioni di Giudice Tutelare e della Famiglia presso il Tribunale di Verona ove si é occupato di amministrazione di sostegno sin dall’entrata in vigore dell’istituto; attualmente é in servizio presso il Tribunale di Catanzaro, con funzioni di Giudice Civile; é autore di numerose pubblicazioni su riviste giuridiche specializzate su tematiche attinenti il diritto di famiglia, dei soggetti deboli ed il bio-diritto.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
L’amministrazione di sostegno e il consenso ai trattamenti medico-chirurgici.
Sommario: 1. Il fondamento normativo. – 2. Il consenso informato: cenni generali. – 3. Il procedimento autorizzatorio davanti al Giudice Tutelare. – 3.1. Il presupposto: l’incapacità dell’amministrato. – 3.2. L’istanza dell’amministratore di sostegno. – 3.3. Le funzioni del Giudice Tutelare. – 4. Le dichiarazioni anticipate e l’amministrazione di sostegno.
1. Il fondamento normativo.
Un valido punto di partenza per questa breve riflessione è costituito dalla disposizione prevista dall’art. 405, comma 4 c.c., secondo la quale “qualora ne sussista la necessità, il giudice tutelare adotta anche d’ufficio i provvedimenti urgenti per la cura della persona”.
Questa norma, inserita nel Codice Civile a seguito dell’entrata in vigore della legge 9.1.2004, n. 61, consente al Giudice Tutelare di attribuire all’amministratore di sostegno (o, in casi di particolare urgenza, ad altro soggetto nominato ad actum) il potere di esprimere il consenso informato alle cure mediche per conto dell’amministrato.
Tale lettura della norma é condivisa da larga parte della giurisprudenza di merito2 e dalla dottrina3 e trova pure conforto nella sentenza n. 21748/20104 della Suprema Corte, dove si afferma che « poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 ss. c.c., introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l’indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405, quarto comma c.c.) ».
2. Il consenso informato: cenni generali
Il consenso informato costituisce, di regola, la legittimazione del trattamento sanitario. Infatti, al di fuori di taluni casi eccezionali (ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.), senza il consenso informato, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente.
Il principio ha un sicuro radicamento nelle norme della Costituzione e segnatamente nell’art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell’art. 13, che proclama l’inviolabilità della libertà personale5; nell’art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana.
Nella legislazione ordinaria, il principio è enunciato in numerose leggi speciali, a partire dalla legge 23.12.1978, n. 8336, la quale, dopo avere premesso, all’art. 1, che «La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana», sancisce, all’art. 33, il carattere, di norma, volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.
A livello sovranazionale, il consenso informato trova riconoscimento nella Convenzione di Oviedo del 4.4.1997, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28.3. 2001, n. 1457, la quale, all’art. 5, pone la seguente regola generale: «Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato».
Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7.12.20008, si evince come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico vada considerato, non soltanto sotto il profilo della liceità del trattamento, ma prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, afferente al più generale diritto all’integrità della persona (Capo I, Dignità; art. 3, Diritto all’integrità della persona).
Nel codice di deontologia medica del 2006 si ribadisce, all’art. 35, che «Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente».
La Corte costituzionale ha, di recente, affermato9 che il consenso informato si configura «quale vero e proprio diritto della persona»10 e svolge una «funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione».
Conseguentemente, il Giudice delle leggi ha ritenuto che «il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale».
Il principio, del resto, è ben saldo nella giurisprudenza della Suprema Corte11, la quale ha ripetutamente statuito che dall’autolegittimazione dell’attività medica non può trarsi la convinzione che il medico possa intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. Il consenso, infatti, afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi12.
Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suosviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza13.
Deve, perciò, escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell’ «alleanza terapeutica» che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico14. Lo si ricava dallo stesso testo dell’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto15. Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d’altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l’obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa – insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure – quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.
3. Il procedimento autorizzatorio davanti al Giudice Tutelare
Ciò premesso in linea generale, si può passare ad esaminare l’iter procedimentale che si conclude con il provvedimento giudiziale di autorizzazione dell’amministratore di sostegno a prestare il consenso informato per conto dell’amministrato.
3.1. Il presupposto: l’incapacità dell’interessato.
L’istanza intesa ad ottenere l’autorizzazione a prestare il consenso per conto del beneficiario di un’amministrazione di sostegno – istanza che può essere formulata già nel ricorso introduttivo ovvero nel corso del procedimento ai sensi dell’art. 407, comma 4 c.c. – presuppone che l’interessato si trovi nell’incapacità di esprimere il proprio consenso al trattamento medico.
E’, dunque, necessario, affinchè l’istanza sopra indicata possa essere accolta, che l’amministrato (o anche colui che beneficerà dell’amministrazione di sostegno) versi in una condizione psico-fisica che non gli consente di rendersi conto appieno di quelle che sono le proprie condizioni di salute, della necessità dell’intervento medico, dei rischio connessi all’intervento o al mancato intervento. Insomma, deve trovarsi in una situazione tale per cui egli non può comprendere le informazioni che il personale sanitario è tenuto a fornirgli e, conseguentemente, non può manifestare in modo consapevole la propria volontà in ordine alle cure che gli vengono prospettate.
In questi casi, la concezione personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di incapacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico, che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, può accettare o rifiutare i trattamenti prospettati16.
D’altra parte, va osservato che l’ordinamento già conosce ipotesi di rappresentanza legale in ordine alle cure e ai trattamenti sanitari. Basti pensare, ad esempio, all’art. 5 del decreto legislativo 24.6.2003, n. 21117, secondo cui la partecipazione alla sperimentazione clinica degli adulti incapaci, che non hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima che insorgesse l’incapacità, è possibile a condizione, tra l’altro, che «sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante», consenso che «deve rappresentare la presunta volontà del soggetto». L’art. 13 della legge 22.5.1978, n. 19418, disciplinando il caso della donna interdetta per infermità di mente, dispone che la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza, sia entro i primi 90 giorni che trascorso tale periodo, può essere presentata, oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore19. L’art. 6, comma 3 della citata Convenzione di Oviedo prevede che «allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo
similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di unapersona o di un organo designato dalla legge».
3.2. L’istanza dell’amministratore di sostegno20.
Con riferimento all’istanza intesa ad ottenere l’autorizzazione giudiziale a prestare il consenso per conto dell’amministrato, occorre riflettere sui criteri che devono orientare la scelta dell’amministratore di sostegno in merito ai trattamenti sanitari ai quali dovrà essere sottoposto il beneficiario.
In altre parole, si tratta di capire in base a quali valutazioni l’amministratore di sostegno esercita, in via rappresentativa, il diritto di autodeterminazione terapeutica spettante all’amministrato.
E’ chiaro che l’amministratore di sostegno non potrebbe acconsentire o, viceversa, rifiutare ad un dato trattamento medico sulla base di un criterio meramente soggettivo. Ciò, infatti, sarebbe in contrasto con il già ricordato principio personalista della Carta costituzionale e, in particolare, con gli artt. 2, 13 e 32 Cost., principio che porta tradizionalmente ad attribuire al diritto alla salute la natura di diritto «personalissimo».
Giova, al riguardo, richiamare il concetto di «rappresentanza funzionale»dell’incapace, che è stato assai bene delineato dal Supremo Collegio nella citata sentenza 16.10.2007, n. 21748. «Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace – afferma la Corte di legittimità – la rappresentanza del tutore è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e, nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace né per l’incapace ma con l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente (…omissis…) tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalla sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche».
Dal concetto di «rappresentanza funzionale» si possono trarre i criteri orientativi sui quali ci si interrogava all’inizio del paragrafo.
Il primo criterio al quale l’amministratore di sostegno si dovrà attenere nel dire «sì» o «no» al trattamento che gli viene proposto dal medico per la cura dell’amministrato è quello della volontàda quest’ultimomanifestata, anche implicitamente, prima di perdere la capacità di autodeterminarsi. Tale criterio trova un referente normativo nel citato art. 5 del decreto legislativo 24.6.2003, n. 211, secondo cui il consenso del rappresentante legale alla sperimentazione clinica deve rappresentare la «presunta volontà» dell’adulto incapace, e, con riguardo alla disciplina dell’amministrazione di sostegno, nell’art. 410, comma 1 c.c., in base al quale «nello svolgimento dei suoi compiti l’amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario».
In proposito, occorre ricordare che nella fattispecie della quale si discute l’amministrato non è capace di autodeterminarsi. Ciò costituisce – lo si è evidenziato nel paragrafo 3.1. – un presupposto indefettibile dell’istanza al Giudice Tutelare di rilascio dell’autorizzazione a prestare il consenso per conto dell’amministrato.
Ne consegue che non è alla volontà espressa dall’incapace all’atto dell’intervento che l’amministratore di sostegno deve attenersi nell’esercizio in via rappresentativa del diritto di autodeterminazione terapeutica. Tale volontà, proprio perché proveniente da un soggetto incapace, è da considerarsi tamquam non esset.
Piuttosto, l’amministratore di sostegno dovrà, anzitutto, indagare se l’amministrato, prima di versare nello stato di incapacità, abbia espresso le sue volontà proprio in ordine a quel trattamento che attende di essere acconsentito o rifiutato; egli dovrà verificare, cioè, se l’amministrato abbia formulato una dichiarazione anticipata di trattamento o, come comunemente si dice, un «testamento biologico»21.
In tal caso, se la volontà, anticipatamente espressa dall’amministrato, è chiara, ha specificamente ad oggetto il trattamento in questione e non vi sono motivi di dubitare della sua perdurante efficacia, l’amministratore di sostegno non potrà ignorarla e dovrà farsene portavoce22.
In mancanza di dichiarazioni anticipate di trattamento, la volontà dell’amministrato va ricostruita sulla base del personale sistema di vita dell’incapace23. Il rappresentante legale deve, cioè, considerare tutti gli aspetti della personalità del paziente, con riguardo, in particolare, ai suoi valori di ordine filosofico, teologico ed etico, al fine di individuare il tipo di trattamento medico che il paziente prediligerebbe. Questo criterio ha trovato concreta applicazione giurisprudenziale nella nota vicenda di Eluana Englaro. La Corte d’Appello di Milano, infatti, ha ricostruito, sulla base di numerose risultanze istruttorie, la volontà di Eluana, desumendola dalla sua personalità e dal suo stile di vita, e ne ha accertato la corrispondenza con la richiesta formulata dal tutore di interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale24.
Il secondo dei due criteri orientativi della scelta dell’amministratore di sostegno viene in considerazione ove non sia possibile determinare la volontà, espressa o implicita, del paziente ed è costituito dal cosiddetto best interest. Tale criterio, elaborato dalle corti inglesi, impone di ricercare una soluzione che corrisponda al miglior interesse dell’incapace secondo l’apprezzamento dei medici, sindacabile dal giudice. In particolare, nel caso Bland25, l’House of Lords è pervenuta alla conclusione che, in assenza di trattamenti autenticamente curativi e data l’impossibilità di recupero della coscienza, è contrario al miglior interesse del paziente protrarre la nutrizione e l’idratazione artificiali, ritenuti trattamenti invasivi ingiustificati della sua sfera corporea26.
Il criterio del best interest27 rinviene il suo fondamento normativo, oltre che nell’art. 6 della Convenzione di Oviedo, che impone di correlare al beneficio diretto dell’interessato la scelta terapeutica effettuata dal rappresentante, anche nell’art. 410 comma 2 c.c., nella parte in cui si prevede l’adozione da parte del G.T. dei provvedimenti opportuni in caso di negligenza dell’amministratore di sostegno nel perseguire l’interesse del beneficiario.
3.3. Le funzioni del Giudice Tutelare28.
L’intervento del Giudice Tutelare sull’istanza presentata dall’amministratore di sostegno assolve ad una triplice funzione: di controllo, autorizzatoria e, se del caso, sanzionatoria.
La funzione di controllo29 si articola in due fasi, l’una antecedente al trattamento medico in questione e l’altra successiva al trattamento eventualmente autorizzato.
La funzione di controllo preventivo deve riguardare, anzitutto, la sussistenza della situazione di incapacità del paziente di autodeterminarsi, situazione che, come si è detto all’inizio, costituisce il presupposto dell’iter procedimentale sin qui delineato. Il Giudice Tutelare, pertanto, deve accertare, sulla scorta della documentazione medica allegata all’istanza (o al ricorso introduttivo) ovvero sulla base di quella ulteriore acquisita d’ufficio ovvero all’esito delle indagini di natura medica disposte ai sensi dell’art. 407, comma 3 c.c.30, che l’interessato si trova in una condizione psicofisica che lo rende incapace di comprendere le informazioni dei sanitari relative ad un determinato trattamento e, conseguentemente, di esercitare validamente la sua opzione terapeutica.
Al fine di garantire il massimo rispetto dei principi costituzionali che sono alla base della teorica del consenso informato è necessario che questa funzione di controllo venga svolta in modo particolarmente accurato e in prossimità temporale rispetto al momento in cui dovrebbe essere eventualmente effettuato il trattamento suggerito dai sanitari. Vi è, infatti, il rischio che si possa per errore ritenere incapace (sulla base, ad esempio, di una documentazione medica risalente nel tempo) un soggetto che è, invece, perfettamente in grado di autodeterminarsi. Con la conseguenza, in ipotesi, che il paziente potrebbe essere sottoposto, in forza del consenso illegittimamente prestato dall’amministratore di sostegno, ad un trattamento non voluto, in palese violazione dell’art. 32, comma 2 Cost. Oppure, nel caso opposto (ma ugualmente lesivo delle garanzie costituzionali), il Giudice Tutelare, considerando erroneamente capace il paziente non-competent, potrebbe rigettare l’istanza di autorizzazione al trattamento da parte dell’amministratore di sostegno, con potenziali gravi ripercussioni sulla legittimità del processo di acquisizione del consenso informato da parte del paziente.
La funzione di controllo preventivo del Giudice Tutelare deve estendersi, poi, alla corretta applicazione da parte dell’amministratore di sostegno dei criteri che devono orientare l’esercizio, in via rappresentativa, del diritto di autodeterminazione terapeutica.
Se, ad esempio, l’amministratore di sostegno chiede di poter acconsentire ad un trattamento sperimentale sul beneficiario, adducendo che tale era la volontà espressa dal paziente prima di perdere la capacità, il Giudice Tutelare, che «deve tener conto» delle richieste dell’amministrato31, dovrà, nell’esercizio degli ampi poteri officiosi consentiti dal citato art. 407, comma 3 c.c., svolgere un’attività istruttoria (ad esempio, sentendo i testimoni, acquisendo informazioni e documenti) finalizzata ad acclarare quali fossero le determinazioni del paziente al riguardo. Se, all’esito di queste indagini, non dovesse emergere alcuna volontà, né espressa né presunta, da parte del beneficiario, il Giudice Tutelare – ferma restando la possibilità di adottare, con funzione sanzionatoria (di cui si dirà appresso) nei confronti dell’amministratore di sostegno, i provvedimenti opportuni ex art. 410, comma 2 c.c.32, tra i quali la rimozione o la sospensione dall’incarico33 – dovrà sollecitare l’amministratore di sostegno a valutare l’opportunità di un simile trattamento facendo applicazione del diverso criterio del best interest. Invece, nel caso in cui dovesse emergere una volontà contraria del paziente al trattamento sperimentale, il Giudice Tutelare dovrà rigettare l’istanza dell’amministratore di sostegno in applicazione del disposto dell’art. 407, comma 2 c.c.
Ove la fase di controllo preventivo si sia conclusa positivamente e, quindi, il Giudice Tutelare abbia riscontrato l’effettiva sussistenza di uno stato di incapacità del beneficiario nonché la corrispondenza ai criteri indicati al precedente paragrafo 3.2. del trattamento proposto dall’amministratore di sostegno, si potrà passare alla fase autorizzatoria.
La funzione autorizzatoria del Giudice Tutelare consiste nell’attribuzione all’amministratore di sostegno del potere di rappresentare il beneficiario nel rapporto di alleanza terapeutica34 con il medico che culmina con l’espressione del consenso (o dissenso) informato al trattamento. Deve, in proposito, rilevarsi che tale funzione autorizzatoria contraddistingue, a mio avviso, l’intervento del Giudice Tutelare in questo ambito rispetto all’intervento del Tribunale in caso di istanza di autorizzazione alle cure promossa dal tutore. Infatti, come si è già avuto modo di osservare35, l’intervento giudiziale in quest’ultimo caso assolve ad una funzione di mero controllo della legittimità dell’opzione terapeutica nell’interesse dell’incapace, senza, tuttavia, risolversi nell’attribuzione di uno specifico potere di cui il tutore è già dotato in base all’art. 357 c.c.36 Invece, nell’ipotesi di istanza di autorizzazione alle cure presentata dall’amministratore di sostegno, l’intervento del Giudice Tutelare non si limita ad un sindacato sulla legittimità e meritevolezza dell’istanza, ma si spinge oltre, arrivando, in caso di esito positivo, ad attribuire all’amministratore di sostegno uno potere di rappresentanza ad hoc.
La funzione di controllo successivo si attiva dopo che l’amministratore di sostegno ha esercitato, in via rappresentativa, il diritto di autodeterminazione, in base allo specifico potere conferitogli giudizialmente. Tale funzione di controllo si attua mediante l’acquisizione al fascicolo dell’amministrazione di sostegno della documentazione medica relativa al trattamento cui eventualmente è stato sottoposto il beneficiario, oppure mediante la convocazione e l’audizione dell’amministratore di sostegno (nel caso in cui, ad esempio, l’intervento autorizzato non si sia più reso necessario o sia stato differito nel tempo) oppure ancora, se non vi sono particolari ragioni di urgenza, attraverso l’esame della relazione periodica ex art. 405, comma 5, n. 6 c.c., nella quale l’amministratore di sostegno darà conto delle attività compiute in esecuzione dell’autorizzazione giudiziale.
La funzione di controllo, e in particolar modo quella di controllo successivo, è strettamente legata all’eventuale adozione di provvedimenti del Giudice Tutelare aventi una funzione sanzionatoria. Infatti, come si è già accennato trattando della funzione di controllo preventivo, il Giudice Tutelare, in caso di scelte o di atti dannosi da parte dell’amministratore di sostegno ovvero in caso di sua negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, può, su ricorso del beneficiario medesimo, del Pubblico Ministero o degli altri soggetti di cui all’art. 406 c.c., o anche d’ufficio37, adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti, quali, ad esempio, la rimozione o la sospensione dall’incarico dell’amministratore di sostegno ovvero, nelle ipotesi integranti fattispecie criminose, disponendo la trasmissione degli atti alla competente Procura della Repubblica.
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Le dichiarazioni anticipate e l’amministrazione di sostegno.
E’ controverso se ed entro quali limiti possa essere utilizzato lo strumento giuridico dell’amministrazione di sostegno per dare attuazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento medico-chirurgico.
Le “dichiarazioni anticipate di trattamento” (altrimenti conosciute come “direttive anticipate di trattamento” o ancora più comunemente note sotto la denominazione invalsa di “testamento biologico”) costituiscono un istituto di origine nordamericana38, che, in tempi recenti, si è diffuso anche in alcuni Paesi di civil law3940.
Negli ordinamenti di matrice anglosassone41 tradizionalmente si distinguono due tipologie di direttive: le “instructional directives”, comunemente conosciute come “living wills”, e le “proxy directives”, indicate nella terminologia americana come “durable power of attorney”.
Nelle direttive del primo tipo (“instructional directives”) il soggetto esprime in anticipo, rispetto ad una futura situazione di incapacità, le proprie decisioni circa i trattamenti cui intende o non intende essere sottoposto.
Le direttive del secondo tipo (“proxy directives”) consentono di nominare una persona (“substitute decision maker”) che, in caso di sopravvenuta incapacità del disponente, decida in sua vece.
Come si diceva all’inizio, l’Italia non ha ancora una legge sulle direttive anticipate di trattamento42.
Nella precedente legislatura e’ stato al vaglio del Parlamento un disegno di legge, noto anche come “disegno di legge Calabrò”, dal nome del suo relatore, che, dopo essere stato approvato dal Senato il 26 marzo 2009, sull’onda del “caso Englaro”43 , è stato modificato dalla Camera il 12 luglio 2011 ed è stato nuovamente trasmesso al Senato per il voto definitivo44 .
Il disegno di legge, intitolato “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, si proponeva l’obiettivo ambizioso di regolamentare, oltre che la materia delle direttive anticipate, anche la materia del cosiddetto “consenso informato”.
Il testo normativo, nella versione da ultimo approvata dalla Camera, faceva riferimento ad ambedue le tipologie di direttive sopra indicate. Infatti, nella dichiarazione anticipata di trattamento – si legge all’art. 3 – il dichiarante “esprime orientamenti e informazioni utili per il medico circa l’attivazione di trattamenti terapeutici”; egli, inoltre, ha la possibilità di nominare “un fiduciario maggiorenne”, il quale è “l’unico soggetto legalmente autorizzato ad interagire con il medico” ed opera “sempre e solo secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata” (art. 6).
Va, inoltre, segnalato che la dichiarazione di anticipata di trattamento – il cui contenuto non poteva comprendere i trattamenti di alimentazione e di idratazione artificiali (art. 4, comma 4) – avrebbe assunto rilievo, a mente dell’art. 4, comma 5, solo nell’ipotesi in cui il dichiarante si fosse trovato in una condizione di “incapacità permanente” dovuta all’ “assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale”, accertata da un apposito collegio medico.
Sebbene non ancora regolamentate da una legge ad hoc, le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono, tuttavia, un istituto sconosciuto al nostro ordinamento.
La “Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina” (Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997) contiene una disposizione apposita per le dichiarazioni anticipate di trattamento. Infatti, l’articolo 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione” (“shall be taken into account”).
Il Parlamento ha adottato la legge 28 marzo 2001, n. 145 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Oviedo. Nonostante tale normativa preveda – appunto – che “Il Presidente della Repubblica è autorizzato a ratificare la (…) Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina” (art. 1) e che “piena e intera esecuzione è data alla Convenzione” (art. 2) deve escludersi che l’Italia sia parte della Convenzione.
Una prima questione riguarda la mancata adozione dei “decreti legislativi recanti ulteriori disposizioni occorrenti per l’adattamento dell’ordinamento giuridico italiano ai principi e alle norme della Convenzione” (art. 3). A tutt’oggi, tali atti non risultano ancora emanati, nonostante lo stesso articolo avesse fissato un termine di sei mesi per la relativa adozione45.
Se l’Italia appare fra i primi Stati firmatari, non risulta fra quelli che hanno terminato il processo di ratifica della Convenzione, non essendo stato depositato presso il Consiglio d’Europa lo strumento di ratifica, nel caso specifico la legge 145/200146 .
Per questa ragione la Convenzione non può considerarsi diritto vigente.
Tali considerazioni, in ogni caso, non impediscono che i principi contenuti nella Convenzione debbano essere utilizzati come ausilio interpretativo. Al riguardo, recente giurisprudenza della Cassazione civile (Cass. 16 ottobre 2007, n. 2174847) conferma che, se la Convenzione si trova a cedere di fronte a norme interne di segno contrario, “può e deve essere utilizzat[a] nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad ess[a] conforme”.
Secondo questa impostazione, quindi, in caso di dubbi sul rilievo da attribuire alle direttive anticipate dovuti ad incertezze o lacune dell’ordinamento, si dovrà adottare quell’interpretazione che maggiormente permette di tenere in considerazione le volontà espresse dal paziente prima di cadere in stato di incapacità.
Il Codice di deontologia medica ha espressamente previsto l’eventualità che il soggetto, prima di cadere in uno stato di incapacità di comunicare, abbia espresso la propria volontà sui trattamenti cui sottoporsi o meno.
L’articolo 38 del Codice dispone, infatti, che il medico “se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”.
Anche la giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto modo di prendere posizione sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
In un caso in cui un testimone di Geova sosteneva di avere subito dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volontà, a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di trasfusione sanguigna, la Cassazione, con sentenza n. 4211 del 23 febbraio 200748 , ha confermato la pronuncia di rigetto dei Giudici di merito, ritenendo che “il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello del paziente ormai anestetizzato”.
In una successiva sentenza (Cass. 15 settembre 2008, n. 2367649), i Giudici di legittimità, nell’esaminare una fattispecie che vedeva sempre coinvolto un testimone di Geova, hanno statuito che, in ipotesi di rifiuto preventivo di un trattamento trasfusionale, “è innegabile, in tal caso, l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale, dimostrata l’esistenza del proprio potere rappresentativo in parte qua, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”.
In particolare, in questa importante pronuncia si è affermato che il cartellino recante la scritta “niente sangue” – che il paziente portava con sé al momento del ricovero – “non consente l’ulteriore inferenza che conduca a presumerne una sorta di implicita efficacia tout court, estesa, cioè, anche all’ipotesi del concreto pericolo di vita che il paziente stesso si troverebbe a correre in assenza di trasfusione, mentre è proprio con riferimento a questa specifica evenienza che – va ripetuto – il (non) consenso deve manifestarsi nella sua più ampia, espressa, consapevole, inequivoca forma”.
Infine, la sentenza “Englaro” (Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748), pur non esaminando ex professo il tema, attribuisce in diversi passaggi motivazionali implicito rilievo alle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Ciò avviene, in primo luogo, allorquando la Corte affronta il problema relativo all’individuazione della regola di giudizio da applicare – in difetto di una specifica disciplina legislativa – nell’ipotesi in cui il soggetto si trovi in stato di totale incapacità “e non abbia, prima di cadere in tale condizione (…omissis…), specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali, invece, avrebbe inteso rifiutare”.
Inoltre, la Corte, nell’esporre il duplice ordine di vincoli (ricerca del best interest; ricostruzione della presunta volontà del paziente) cui è sottoposto il potere di rappresentanza legale del tutore nell’ambito delle cure mediche, afferma che la ricostruzione della presunta volontà del paziente incosciente deve essere operata “tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza”.
Infine, i Supremi Giudici, nel sancire la regula iuris da applicare al caso di specie, statuiscono che l’interruzione delle cure di sostegno vitale è consentita se il soggetto si trovi in una condizione irreversibile di stato vegetativo e tale condizione sia incompatibile con la rappresentazione che il soggetto ha di sé, “tenendo conto della volontà espressa dall’interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso”.
All’indomani dell’entrata in vigore della citata legge 6/2004 non è mancato chi ha ritenuto di poter ricavare dalle sue norme un appiglio al fine di colmare la lacuna relativa alle dichiarazioni anticipate di trattamento50.
In particolare, si è ritenuto di potere individuare la valorizzazione degli auspici espressi dall’uomo prima di perdere la propria capacità di autodeterminazione nella norma contenuta all’art. 408, comma 1, secondo capoverso c.c.51, ove si legge: “L’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacità mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata”.
Con tale norma, che si pone al crocevia tra l’amministrazione di sostegno e le direttive anticipate, può dirsi che il legislatore abbia introdotto la figura del cosiddetto “testamento di sostegno”.
La disposizione in esame è stata interpretata da una parte della giurisprudenza (decreto G. T. Firenze 22 dicembre 201052;; decreto G.T. Modena 5 novembre 200853) come “lo strumento che consente di attuare concretamente quel sistema di tutela espresso sul piano del diritto sostanziale dagli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione”.
Si è, pertanto, ritenuto di poter nominare un amministratore di sostegno con autorizzazione a compiere, per conto del ricorrente, atti di prestazione o di negazione del consenso a trattamenti medici per il caso futuro ed eventuale di incapacità del ricorrente medesimo.
A sostegno di tale tesi si è osservato che la non attualità della condizione di incapacità del ricorrente non è di ostacolo all’adozione della misura protettiva: “se l’amministratore di sostegno non potesse essere nominato in via anticipata e del tutto eventuale nei casi di eventi non preannunciati né prevedibili, ma con conseguenze lesive immediate e tali da porre la persona in uno stato vegetativo irreversibile, la mera esistenza di una volontà espressa ai sensi del comma 2 dell’art. 408 rischierebbe di restare inattuata; e ciò per i tempi necessari per la messa in operadell’amministratore di sostegno, per la necessità di procedere talvolta con assoluta urgenza in presenza di una situazione di pericolo per la sopravvivenza della persona” (decreto G.T. Firenze, 22 dicembre 2010, cit.).
Inoltre, secondo questa opinione, è la lettera stessa dell’art. 404 c.c. – secondo cui “la persona, che …omissis… si trova nell’impossibilità …omissis… di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno …omissis…” – a suggerire che il legislatore “ha individuato l’attualità dello stato di incapacità del beneficiario come presupposto per la produzione degli effetti dello strumento protettivo, ma non anche come requisito per la sua istituzione” (decreto G.T. Modena, 5 novembre 2008, cit.).
Infine, si è osservato che l’art. 406 c.c., nell’attribuire legittimazione allo stesso beneficiario, anche se interdetto o inabilitato, sembra innegabilmente fare intendere che il ricorso, nella normalità dei casi, può essere presentato da un soggetto con piena capacità di agire e, dunque, anche da un soggetto che oggi è in condizione di autodeterminarsi ma domani non lo sarà più.
Secondo un diverso orientamento giurisprudenziale (decreto G.T. Sassari 16 luglio 200754; decreto G.T. Cagliari 14 dicembre 200955; decreto G.T. Verona 4 gennaio 201156), mentre la designazione può essere fatta dall’interessato anticipatamente, in previsione della propria, eventuale e futura incapacità, per la nomina effettuata dal Tribunale è necessaria l’attualità dell’impossibilità del soggetto di provvedere ai propri interessi; attualità che si desume sia dall’art. 404, comma 1 c.c. (soggetto che “si trova nell’impossibilità”) sia dall’art. 405, comma 1 c.c., che prevede l’immediata esecutività del decreto.
Pertanto, in base a tale orientamento, un soggetto, ancora pienamente capace di intendere e di volere, potrebbe soltanto designare, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, in vista della propria eventuale, futura incapacità, un amministratore di sostegno; ma, affinchè il Giudice possa emettere un decreto di apertura di amministrazione di sostegno, occorrerà l’effettivo verificarsi, in capo all’amministrato, dello stato di impossibilità “di provvedere ai propri interessi”.
Di recente sul tema è intervenuta la Suprema Corte, che, con sentenza n. 23707 del 20.12.201257, ha evidenziato come sia la ratio dell’istituto previsto dalla legge 9.1.2004, n. 6 sia la lettera delle disposizioni da essa introdotte (in particolare, l’art. 404 c.c.) inducano a ritenere necessaria la contestualità tra l’intervento giudiziario e la situazione di incapacità o infermità del soggetto bisognoso di protezione.
In altre parole, anche ad avviso della giurisprudenza di legittimità, non si può procedere alla nomina di un amministratore di sostegno se l’amministrato non si trova nell’impossibilità attuale di provvedere alla tutela dei propri interessi.
E’ stato, infatti, chiaramente affermato che “l’intervento giudiziario …omissis… non può che essere contestuale al manifestarsi dell’esigenza di protezione del soggetto, dunque della situazione di incapacità o di infermità da cui quell’esigenza origina; …omissis… in logica consecuzione non ne è ammessa l’adozione ora per allora, in vista di una condizione futura” .
Dopo avere enunciato la regula iuris applicabile al caso in esame, la Suprema Corte si sofferma ad analizzare la fattispecie prevista dall’art. 408 c.c.
La designazione preventiva disciplinata dalla norma citata costituisce, ad avviso dei Giudice di legittimità, “esplicazione del principio di autodeterminazione della persona in cui, a sua volta, si esplica e si realizza il rispetto della dignità umana” e si fonda sul “rapporto di fiducia” tra designante e designato sul quale graverà il compito di agire non solo “nell’interesse” del primo ma anche “con” esso, per attuarne le volontà.
A questo punto si rendono necessarie due considerazioni.
La prima è che in alcuni passaggi della sentenza in rassegna sembrano riecheggiare le parole della nota decisione della Suprema Corte sul caso di Eluana Englaro . In quella importante pronuncia si ebbe modo di affermare, infatti, che “nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli: egli deve, anzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e, nella ricerca del best interest, deve decidere non al posto dell’incapace, né per l’incapace, ma con l’incapace: quindi ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente”.
E, dunque, si può dire che il designato ex art. 408 c.c., al pari del tutore, è chiamato ad interpretare e ad attuare le volontà del designante/rappresentato che, nel frattempo, è divenuto incapace.
La seconda considerazione è che la struttura dell’istituto contemplato dall’art. 408 c.c. è assimilabile a quella delle cosiddette dichiarazioni (o direttive ) anticipate di trattamento medico e assistenziale.
Sotto questo profilo non è, perciò, del tutto condivisibile il passaggio motivazionale della sentenza nel quale si afferma “l’estraneità al thema decidendum e, quindi, l’irrilevanza ai fini della presente decisione della problematica attinente alla natura e agli effetti delle direttive anticipate di trattamento sanitario”.
Nella seconda parte della sentenza, la Suprema Corte evoca più volte il concetto di “dignità umana” che viene definito come “valore fondamentale” sul quale converge il coacervo delle fonti giuridiche interne e sovranazionali in tema di autodeterminazione terapeutica .
E’ stato detto da taluno che quello della “dignità umana” è il vero lascito del costituzionalismo del dopoguerra: se la rivoluzione dell’uguaglianza era stato il connotato della modernità, la rivoluzione della dignità segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l’era del rapporto tra persona, scienza e tecnologia .
Numerose sono le Carte costituzionali che pongono in rilievo la centralità della dignità umana .
In primis va ricordata la nostra Costituzione che alla dignità fa esplicito riferimento negli artt. 358, 3659 e 4160.
Particolarmente significativa, perché adottata all’indomani della terribile esperienza nazionalsocialista, è la Legge fondamentale tedesca (“Grundgesetz”) dell’8.5.1949 che si apre con le seguenti parole: “La dignità dell’uomo (Menschenwurde) è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla”61.
Il cammino costituzionale della dignità è continuato fino all’approdo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000, Carta che – come opportunamente ricordano i Giudici di legittimità – è divenuta giuridicamente vincolante dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona62.
L’art. 1 della Carta, infatti, esordisce all’insegna della dignità, riproducendo quasi alla lettera il primo articolo della Costituzione tedesca: “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”.
Certamente, la dignità, al pari delle altre clausole generali, corre il rischio di trasformarsi in una “scatola vuota”, in un qualcosa di vago e, perciò, inutile63.
Tuttavia, volendo riempire di contenuti questo concetto, si può cominciare con l’osservare che la dignità compete a tutte le persone, sicchè debbono considerarsi illegittime tutte le distinzioni che portano a considerare alcune vite come non degne o meno degne di essere vissute64. In questa accezione la dignità si presenta come fondamento concreto della nuova accezione di cittadinanza, intesa come patrimonio di diritti che appartengono alla persona, quale che sia la sua condizione o il luogo in cui si trova65.
Una seconda specificazione indica nella dignità il principio che vieta di considerare la persona come mezzo e, dunque, di strumentalizzarla. Ciò fa comprendere il legame, posto in luce dalla sentenza in rassegna, tra la dignità e l’autodeterminazione: è proprio della dignità il rispetto dell’autonomia della persona che non può mai essere oggetto di decisioni altrui66.
Va, senza dubbio, accolto con favore il richiamo contenuto nella parte finale della sentenza in rassegna al principio della “dignità umana”.
Si tratta di un applicazione concreta di quel “diritto per principi”67 che dovrebbe caratterizzare il moderno Stato costituzionale, sorto come vero e proprio “mutamento genetico” dello Stato di diritto legislativo.
E’ una tecnica di giurisdizione che, mediante il ricorso a clausole generali, consente una migliore valorizzazione delle peculiarità del caso concreto68. Ciò è particolarmente apprezzabile in materie – tra le quali, appunto, quella dell’autodeterminazione in campo sanitario – che toccano direttamente la persona nella sua sfera corporale e, dunque, nella sua dimensione più intima e che, essendo per loro natura esposte alle innovazioni apportate dal progresso scientifico-tecnologico, mal si prestano ad essere disciplinate esclusivamente sulla base ai rigidi schematismi del diritto positivo.
1 «Introduzione nel libro primo, titolo XII, del codice civile del capo I, relativo all’istituzione dell’amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione, nonche’ relative norme di attuazione, di coordinamento e finali», in G.U. n. 14 del 19.1.2004.
2Ex multis, decreto G.T. Roma, 24.3.2010, in Fam. e dir. 2010, p. 1022; decreto G.T. Roma 19.3.2004, in Not. 2004, p. 249; decreto G.T. Modena 25.9.2006, in Dir. e giust., 2006/44, p. 47; contra, Trib. Torino, 26.2.2007, in Fam. e dir., 2007, p. 721, secondo cui «la mancata estensione all’amministrazione di sostegno del disposto degli artt. 357, 358 371 c.c., sui quali si fondano i poteri del tutore in ordine alla prestazione del consenso informato all’atto medico e alla collocazione dell’interdetto in strutture protette, determina l’impossibilità per l’amministratore di sostegno e per il giudice tutelare – in quanto non legittimato da alcuna disposizione – di autorizzare atti invasivi senza il consenso del beneficiario: ciò vale sia in ordine alla collocazione sia in ordine al consenso ad interventi sanitari, pena la violazione dei principi costituzionali in materia di libertà personale e di volontarietà della cura».
3 G. FERRANDO, «Protezione dei soggetti deboli e misure di sostegno, in S. PATTI (a cura di), La riforma dell’interdizione e dell’inabilitazione», Milano, 2002, p. 137; G. BONILINI, «Capacità del beneficiario e compiti dell’amministratore di sostegno», in G. BONILINI – A- CHIZZINI, «L’amministrazione di sostegno», Padova, 2004, p. 172 ss.
4Cass. civ., sez. I, 16.10.2007, n. 21748, in Foro it. 2008, I, c. 2609 ss., con nota di S. CACACE, «Sul diritto all’interruzione del trattamento sanitario life-sustaining».
5 Secondo Corte cost. 9.10.1990, n. 471, in Foro it. 1991, I, c. 14, nella libertà personale è postulata «la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo».
6 «Istituzione del servizio sanitario nazionale», in G.U. n. 360 del 28.12.1978.
7 La «Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologica e della medicina: Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina», adottata dal Consiglio d’Europa e resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica del 28.3.2001, n. 145, non è stata ancora ratificata dallo Stato italiano. Tuttavia, come è stato affermato dalla Suprema Corte nella citata sentenza 16.10.2007, n. 21748, essa non è priva di effetto nel nostro ordinamento, in quanto assolve ad una funzione ausiliaria sul piano interpretativo, di talchè può e deve essere utilizzata nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile conforme alla norma sovranazionale.
8 Ora recepita nel Trattato sull’Unione Europea (art. 6, comma 1: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati»), nella versione da ultimo modificata dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.12.2009.
9Corte cost. 23.12.2008, n. 438, con nota di R. BALDUZZI–D. PARIS, «Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative», in www.associazionedeicostituzionalisti.it, e di C. CASONATO, «Il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari fra livello statale e livello regionale», in www.forumcostituzionale.it.
10 Per una lettura critica di questo passaggio della sentenza sia consentito rinviare al mio contributo, «Il fondamento costituzionale del consenso informato», in Studium Iuris, 2009, p. 1170.
11Si vedano, tra le pronunzie più recenti, Cass. civ. 11.5.2009, n. 10741 e Cass. civ. 8.10.2008, n. 24791.
12Cass. pen., Sez. IV, 11.7.2001-3.10.2001.
13 Cass. 16.10.2007, n. 21748, cit.
14 Cfr. Cass. pen., 29.5.2002, n. 26446, imp. Volterrani, in Riv. it. med. leg., 2003, 395.
15 Cfr. Corte cost., 23.6.1994, n. 258.
16 In termini, Cass. 16.10.2007, n. 21748, cit.
17 «Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico», in G.U. n. 184 del 9.8.2003
18 «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza», in .G.U. n. 140 del 22.5.1978.
19 La richiesta, ove presentata dal tutore, «deve essere confermata dalla donna».
20 Le considerazioni che vengono di seguito svolte con riferimento all’istanza dell’amministratore di sostegno sono ovviamente valide anche per l’analogo caso in cui l’istanza provenga non dall’amministratore di sostegno ma da uno dei soggetti legittimati a proporre il ricorso di cui all’art. 406 c.c. In tale ipotesi, peraltro, il Giudice Tutelare, verificata la sussistenza dell’incapacità di autodeterminazione del paziente, dovrà preliminarmente procedere alla nomina dell’amministratore di sostegno, anche in via provvisoria, (o di un soggetto incaricato ad acta ai sensi dell’art. 405, comma 4 c.c.), il quale, poi, effettuate le valutazioni del caso secondo i criteri enunciati nel testo, chiederà eventualmente l’autorizzazione giudiziale a prestare il consenso per conto del beneficiario.
21 Si tratta di un istituto, secondo taluni già in vigore nel nostro ordinamento, oggetto di una controversa proposta di legge, tuttora all’esame della Camera dei deputati, in base al quale si può“esprime(re) il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere” (art. 3, comma 1 della proposta di legge n. 2350). Sull’argomento si veda ampliussub nota 38.
22 Sui limiti di validità del consenso/dissenso preventivo alle cure si veda Cass. 15.9.2008, n. 23676, in Resp. civ. prev., 2009, p. 2108 ss..
23 E’ il cosiddetto substituted judgement test di matrice nordamericana, adottato dalla Corte Suprema del New Jersey nel leading case in re Quinlan, 355 A.2d 647 (1976). Nella sentenza 25.6.1990, sul caso Cruzan (in Foro. it., 1991, IV, 66, con note di A. SANTOSUOSSO, «Il paziente non cosciente e le decisioni sulle cure: il criterio della volontà dopo il caso Cruzan», e G. PONZANELLI, «Nancy Cruzan, La Corte suprema degli Stati uniti e il right to die»), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che la Costituzione degli USA non proibisce allo Stato del Missouri di stabilire «a procedural safeguard to assure that the action of the surrogate conforms as best it may to the wishes expressed by the patient while competent.». Di recente, il criterio del substituted judgement test è stato recepito dall’ordinamento giuridico tedesco che lo ha espressamente previsto al §1901a del BGB, a seguito di una legge, entrata in vigore il 1.9.2009, istitutiva della cosiddetta Patientenverfügung (letteralmente, «atto di disposizione del paziente»), sulla quale si rimanda al mio contributo «La legge tedesca sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Patientenverfügung)» .
24 Appello Milano, decr. 9.7.2008, in Fam. dir., 2008, p. 903, con nota di R. PACIA, «Sull’interruzione delle cure del malato in stato vegetativo permanente».
25 House of Lords, 14,15,16.12.1992 – 4.2.1993, caso Airedale NHS Trust v. Bland, in Bioetica, 1997, p. 313 ss., con commento di J. KEWON, «Uscire dalla via mediana: la depenalizzazione giudiziaria dell’eutanasia passiva non volontaria».
26 La questione sulla quale l’House of Lords, nel suo ruolo di Suprema Corte dì Appello del Regno Unito, è stata chiamata a pronunciarsi riguardava un giovane tifoso, Tony Bland, rimasto travolto negli scontri avvenuti durante una partita di calcio. Si trattava, nella fattispecie, di stabilire se i trattamenti medici di sostegno vitale potessero legalmente essere non somministrati al paziente in stato di incoscienza irreversibile, che non aveva mai dato indicazioni circa i suoi desideri per l’ipotesi in cui si fosse trovato in una simile condizione. La Corte ha dato al quesito risposta affermativa, precisando che l’interruzione dei trattamenti life-sustaining può essere legalmente praticata, a condizione che sia preceduta da una valutazione del medico per la quale «sarebbe nel miglior interesse del paziente non prolungare la vita mediante la prosecuzione di tale trattamento, poiché detta prosecuzione sarebbe inutile e non gli recherebbe alcun beneficio».
27 Per un approfondimento della nozione di best interest si rimanda all’interessante contributo di M. TOMASI, «Il caso di L.B.: una prospettiva “atipica” in merito di fine-vita», in www.jus.unitn.it/biodiritto/pubblicazioni/06.
28 Sul Giudice Tutelare in generale si veda G. CAMPESE, «Il giudice tutelare e la protezione dei soggetti deboli», Milano, 2008; M. DOGLIOTTI, «Il diritto di famiglia ed i compiti del giudice tutelare», in Dir. fam., 1981, p. 289; G. FERRANDO, «Giudice tutelare», in Nov. Dig., Torino, 1982, App. III, p. 980; M. DOGLIOTTI, «Giudice tutelare», in Dig. Civ., Torino, 1993, IX, p. 94 ss.; B. DE FILIPPIS – G. CASABURI, «Il giudice tutelare», Padova, 1999. Sulle funzioni del Giudice Tutelare si veda anche A. .JANNUZZI- P. LOREFICE, «Manuale della volontaria giurisdizione», Milano, 2004, p.113 ss.
29 Sulla funzione di controllo del giudice in relazione alle richieste del tutore di autorizzazione al trattamento medico si veda Cass. 16.10.2007, n. 21748, cit., secondo cui «l’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace; e, all’esito di un giudizio effettuato secondo la logica orizzontale compositiva della ragionevolezza, la quale postula un ineliminabile riferimento alle circostanze del caso concreto, si estrinseca nell’autorizzare o meno la scelta compiuta dal tutore».
30 Il Giudice Tutelare «dispone, altresì, anche d’ufficio gli accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori che ritiene utili ai fini della decisione».
31 «Il Giudice Tutelare (…omissis…) deve tenere conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa».
32 «In caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all’art. 406 possono ricorrente al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti».
33 L’art. 411, comma 2 c.c. richiama l’art. 384 c.c., che prevede la rimozione o la sospensione del tutore in caso di negligenza.
34 Secondo l’art, 2, comma 3 della proposta di legge n. 2350 («Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento».), (su cui si veda, infra, nel testo sub par. 4), «l’alleanza terapeutica costituitasi all’interno della relazione fra medico e paziente ai sensi del comma 2 si esplicita in un documento di consenso informato, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica».
35 Si veda sub nota 29.
36 L’art. 357 c.c. attribuisce al tutore la cura della persona del minore (e dell’interdetto, in forza del richiamo operato dall’art. 424 c.c.). Il termine cura deve essere qui inteso in senso ampio, comprensivo (per dirla richiamando le riflessioni di M. HEIDEGGER, «Essere e tempo», ed. it. a cura di F. VOLPI, Milano, 2006, § 26, pp. 149-154) non solo del prendersi cura (e cioè del prendere il posto dell’altro nella cura di sé) ma anche nell’aver cura (che consiste nell’entrare in relazione con l’altro e nel portarlo a prendersi cura di sé stesso). Sul concetto di cura si rinvia a S. RODOTA’, «La vita e le regole. Tra diritto e non diritto», Milano, 2006, p. 223 ss.
37 A tale conclusione mi pare si possa pervenire sulla base dell’ampia previsione dell’art. 407, comma 4 c.c.: «Il giudice tutelare può, in ogni tempo, modificare o integrare, anche d’ufficio, le decisioni assunte con il decreto di nomina dell’amministratore di sostegno».
38 Negli Stati Uniti, la via giurisprudenziale ha costituito l’antecedente per l’adozione di una disciplina legislativa in materia di testamento biologico. A decorrere dagli anni Settanta e, in particolare, con il noto caso Quinlan, si è sviluppato un intenso dibattito sul right to die. Il caso Quinlan fu l’antefatto giurisprudenziale che portò all’approvazione, nello Stato della California, del Natural Death Act del 1976, che, in alcuni articoli, afferma per la prima volta, a livello normativo, l’efficacia del living will (dichiarazioni anticipate di volontà o testamento biologico). Successivamente, molti altri Stati si sono dotati di una legislazione in materia (tra i quali, Illinois, Louisiana, Tennessee, Texas e Virginia). A livello federale, dopo la sentenza relativa ad un altro caso famoso (caso Cruzan), venne approvato, nel 1991, il Patient self determination Act. Sulla base di tale legge, vengono riconosciuti i diritti della persona di accettare o rifiutare i trattamenti medici e di formulare dichiarazioni anticipate di volontà (living will).
39 In Francia la legge del 22 aprile 2005, n. 2005-370 detta anche “legge Leonetti”, relativa ai diritti del malato ed alla fine della vita, ha previsto, all’art. L. 111-11, la possibilità, per un soggetto maggiorenne, di formulare direttive anticipate (“directives anticipées”): esse indicano gli orientamenti del soggetto relativamente alle limitazioni o cessazioni di trattamenti medici (con riferimento agli eventuali casi in cui egli non sia più in condizione di esprimere la propria volontà) e sono revocabili in ogni momento; esse rilevano soltanto quando siano state redatte a distanza di meno di tre anni dalla perdita di coscienza del soggetto stesso, restando così efficaci per tutta la durata di tale stato del paziente.
40 Il 18 giugno 2009 il Bundestag ha approvato una legge che, novellando alcuni articoli del libro IV del BGB, introduce nell’ordinamento tedesco l’istituto denominato Patientenverfügung (letteralmente, atto di disposizione del paziente) .
Tale istituto é strettamente collegato a quello dell’amministrazione di sostegno , giacchè l’amministratore di sostegno (Betreuer), previa verifica dell’attualità della disposizione, è chiamato a realizzare la volontà del dichiarante..
Il nuovo § 1901 a, comma 1, infatti, così dispone: “Se una persona maggiorenne e capace di dare il consenso, per il caso di sua incapacità di dare il proprio consenso, ha stabilito per iscritto che acconsente o rifiuta determinati esami del proprio stato di salute, cure terapeutiche o interventi medici non previsti come imminenti al momento della disposizione, l’amministratore di sostegno verifica se tali disposizioni corrispondono all’attuale situazione di vita e di trattamento, Se questo è il caso l’amministratore di sostegno deve dare espressione ed attuazione alla volontà dell’assistito” .
41 J. DOWNIE, Dying Justice. A case for decriminalizing euthanasia and assisted suicide in Canada, University of Toronto Press, 2004, 7.
42 Non appare fuor di luogo richiamare, a proposito delle ragioni del mancato completamento a tutt’oggi dell’iter legislativo sulle direttive anticipate, quanto P. ZATTI, Maschere del diritto. Volti della vita, Giuffrè, 2009, 8-9, scriveva alcuni anni orsono: “Da noi vige l’Italian way:non si legifera perché non si riesce e perché non si vuole; unica eccezione significativa la nuova definizione di morte del 1993. L’inerzia italiana non si spiega solo per cause politiche contingenti: la sua fonte sta nel difetto di consenso e nella lontananza delle posizioni, testimoniata anche dal lavoro, pur pregevole, del Comitato Nazionale per la Bioetica; ma insieme in un modo contraddittorio di guardare al diritto. Da una parte siamo assuefatti a una prassi legislativa sciatta e casuale, che trascura o travolge qualsiasi lavboro preparatorio, dominata dalla negoziazione minuta, con tecniche di compromesso puramente verbali che mirano sempre alla linea di minore significanza possibile del testo legislativo; siamo assuefatti a una soglia bassa di valore delle leggi. Dall’altra, e paradossalmente, pensiamo al diritto come a uno strumento di proclamazione di valori piuttosto che di soluzione pragmatica di conflitti”.
43 Al riguardo si veda l’interessante scritto di T. GROPPI, Il “caso Englaro”: un viaggio alle origini dello Stato di diritto e ritorno(intervento al Seminario di ASTRID sul “caso Englaro”), in www.forumcostituzionale.it
44 Per una più approfondita disamina del disegno di legge “Calabrò” sia consentito rinviare a A. SCALERA, La proposta di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, in Fam e dir., 2010, 6, 627-637.
45 La L. 16 gennaio 2003, n. 3 ha disposto (con l’art 49, comma 1) che “Il termine per l’esercizio della delega previsto dall’articolo 3, comma 1, della legge 28 marzo 2001, n. 145, e’ differito al 31 luglio 2003.”.
46 Con una mozione approvata nella seduta plenaria del 24 febbraio 2012, il Comitato Nazionale per la Bioetica ha sottolineato la necessità di procedere al completamento dell’istruttoria per arrivare alla possibilità di rendere pienamente e sotto ogni aspetto operativa la Convenzione di Oviedo ed ha rinnovato la propria disponibilità ad esaminare sotto il profilo bioetico tutte le problematiche relative al completamento dell’iter di ratifica, inclusa l’indicazione di eventuali riserve e di opportuni adeguamenti dell’ordinamento.
47 La sentenza è stata oggetto di un vivace dibattito ed è stata pubblicata e commentata su diverse riviste tra le quali Il Corr. Giur., 2007, 12, 1676 ss., con nota di E. CALO’, “La Cassazione “vara” il testamento biologico”.
48 Pubblicata in Resp. civ. prev., 2007, 9, 1881, con nota di G. FACCI, “Le trasfusioni dei testimoni di Geova arrivano in Cassazione (ma la S.C. non decide)”.
49 Pubblicata in Corr. Giur., 2008, 12, 1671 ss.. con nota di F. FORTE, “Il dissenso preventivo alle trasfusioni e l’autodeterminazione del paziente nel trattamento sanitario: ancora la Cassazione precede il legislatore nel riconoscimento di atti che possono incidere sulla vita”.
50 Cfr. E. CALO’, Amministrazione di sostegno, Giuffrè, 2004, 106 ss; G. BONILINI, Testamento per la vita e amministrazione di sostegno, in AA.VV., Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Milano, Il Sole 24 ore 2005, 198 ss; M,. SESTA, Quali strumenti per attuare le direttive anticipate? in AA. VV., op. ult. cit., 170; M.M. BUGETTI, Nuovi strumenti di tutela dei soggetti deboli tra famiglia e società, Ipsoa, 2008, 279; G. FERRANDO, Le finalità della legge. Il nuovo istituto nerl quadro delle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, in G. FERRANDO – L. LETI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, Giappichelli, 2006, 38 ss.
51 G. BONILINI, A. CHIZZINI, L’amministrazione di sostegno, Milano, 2004, 72.
52 Consultabile sul sito www.personaedanno.it.
53 Pubblicato in Fam. dir., 2009, 277, con nota di G. FERRANDO, Amministrazione di sostegno e rifiuto di cure.
54 Pubblicato in Foro italiano., 2007, I. 3025
55 Pubblicato in Fam. e dir., 2010, 2, 161
56 Pubblicato in www.ilcaso.it
57 Pubblicata in Fam. e dir. 2013, 577, con nota di M. Betti, Il consenso agli atti sanitari dell’amministratore di sostegno, le decisioni del Giudice Tutelare. Sul punto sia consentito rinviare anche ad una mia nota di commento La designazione preventiva ex art. 408 c.c. tra amministrazione di sostegno e dignità umana pubblicata su Biodiritto Rivista interdisciplinare di bioetica e diritto, 2014, 115-124.
58 “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
59 “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
60 “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
61 All’origine della scelta dei costituenti tedeschi era evidentissima la volontà di reagire alla distruzione dell’umano che aveva accompagnato l’esperienza nazista ed aveva portato alla perversione dell’intero ordinamento giuridico. Per questo un ruolo fondamentale nella maturazione della riflessione sul concetto di dignità ha avuto la formulazione di Gunter Durig (c.d. Objektformel): “La dignità dell’uomo è lesa quando l’uomo concreto è ridotto ad un semplice mezzo, degradato ad una dimensione fungibile”.
62 L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, a seguito delle modifiche introdotte dal trattato di Lisbona firmato il 13.12.2007 ed entrato in vigore l’1.12.2009, prevede: “L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.
63 Secondo G. Cricenti, Il se e l’altro, op. cit., 51, “la dignità, invero, è un concetto inutile. Essa niente aggiunge ai diritti che l’ordinamento riconosce all’individuo né può costituire fonte di diritti nuovi”.
64 Paradigmatico di questo modo di vedere è l’opuscolo di due accademici tedeschi, Karl Binding (un giurista) e Alfred Hoche (uno psichiatra), intitolato “Il permesso a sopprimere le vite non degne di vivere”, la cui versione italiana è pubblicata nel libro di C.A. De Fanti, Eugenetica: un tabù contemporaneo, Torino, 2012, 263 ss.
65 Secondo J. Habermas, in Questa Europa è in crisi, Bari, 2012, 13, “l’idea della dignità umana è la cerniera concettuale che connette la morale della medesima considerazione per ciascuna persona con il diritto positivo e la sua legislazione democratica”.
66 S. Rodotà, op. cit., 192.
67 Sul “diritto per principi”si rinvia alle dense riflessioni di G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 147 ss., il quale, in particolare, a proposito della differenza tra “principi” e “regole”, osserva, tra l’altro, che “solo i principi svolgono un ruolo propriamente costituzionale, cioè “costitutivo dell’ordine giuridico. Le regole, ancorchè scritte nella Costituzione, non sono altro che leggi rinforzate dalla loro forma speciale. Esse, infatti, esauriscono in se stesse la loro portata, non hanno, cioè, alcuna forza costitutiva di qualcosa al di fuori di loro”.
68 In questo senso S.Rodotà, op. cit., 191, secondo cui le clausole generali offrono “la risposta più adeguata non solo alle dinamiche indotte da mutamenti e innovazioni continui e vorticosi, ma alle esigenze di una società via via definita dell’incertezza, del rischio, liquida, bisognosa, dunque, di un diritto omeostatico, capace di seguirla tempestivamente nelle sue imprevedibili dinamiche”.