Magistrato, giudice civile e tutelare presso il Tribunale di Pordenone.
Dal 2003 al 2008 ha svolto funzioni di professore a contratto di diritto processuale civile e tributario presso l’Università di Trieste e assistente di studio del giudice costituzionale prof. Franco Gallo (2004/2005). Dal 2005 docente presso la Scuola forense di Pordenone.
Ha partecipato a numerosi corsi e seminari, in particolare nel campo del diritto tributario e della tutela delle persone deboli, sia come relatore sia come coordinatore sia come promotore, distinguendosi per la preparazione, l’umanità, la capacità di coordinare le risorse del volontariato.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
L’attuazione della L. 6/2004 tra giustizia, politiche sociali e solidarietà. Dalle parole ai fatti
1. Considerazioni introduttive 2. Una questione preliminare di procedura 3. Le principali esigenze attuative della riforma 4. Le criticità e le soluzioni (possibili) 5. Chi fa cosa. Cosa si può fare 6. Come si può fare. Il partenariato e le misure di organizzazione giudiziaria 7. segue. Il ruolo delle Regioni e della legislazione regionale 8. Il profilo costituzionale dell’ attuazione della L. n. 6/2004
- 1. Considerazioni introduttive
La legge n. 6 del 2004 è stata un grande salto di civiltà per la protezione e la promozione dei diritti delle persone deboli.
Sul piano normativo.
Ma dalle parole della legge ai fatti il “tragitto” sovente non è nè diretto nè facile nè breve.
Di ciò la “storia” dell’attuazione decennale di questo plesso normativo ne è una dimostrazione evidente.
D’altro canto non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso.
Anche questa riforma legislativa è stata infatti calata in una situazione complessiva della giustizia italiana in progressivo, costante deterioramento.
Inoltre, come e più di tante altre, questa legge ha un grande bisogno di strumenti operativi per “generare” i fatti che prevede e “promette”; strumenti di tipo organizzativo, finanziario e, di nuovo, normativo.
E’ dunque una legge che ha aperto una nuova via di accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti in un “sistema viario” già molto trafficato e senza alcuna previsione di “preferenzialità” nè alcuna di “assistenza”.
Inevitabile perciò che questo abbia costituito fin qui, oltre alle pur rilevanti questioni di interpretazione giuridica -peraltro in larga misura via via risolte- il principale problema di attuazione del progetto-promessa di riforma in questione.
- 2. Una questione preliminare di procedura
Che il ricorso per l’apertura della procedura di AdS non necessiti di patrocinio defensionale tecnico la S.C. di Cassazione lo dice dal 2006 (sentenza n. 25366),
costantemente e quindi consolidatamente, sì che questo può senz’altro ritenersi un principio giuridico di “diritto vivente” (da ultimo, Cass. civ. n. 6861/2013).
Per regola ossia quando, come appunto normalmente avviene, il G.T. non debba applicare “particolari limitazioni etc.”, il ricorso introduttivo del procedimento può dunque essere, semplicemente e direttamente, sottoscritto da chi ha la legittimazione attiva a proporlo ex art. 406, Cod. civ.
Questa è la nomofilachia della questione.
Ciononostante, risulta che ancora oggi, dopo 10 anni dall’entrata in vigore della L. n. 6/2004, dopo 8 anni dalla prima sentenza della Cassazione, un certo, nient’affatto irrilevante, numero di Tribunali italiani sia di contrario avviso, imponendo che detto atto procedimentale e qualsiasi atto di parte del procedimento (es. tipico le autorizzazioni a compiere atti negoziali di “straordinaria amministrazione” ex art. 374-375, Cod. civ.) siano invece sottoscritti da un avvocato.
Lo scopo, più o meno dichiarato, ma certamente consapevole, di consimile per così dire anomofilattico indirizzo interpretativo è quello di “frenare/limitare” il flusso delle procedure e così l’esigenza di gestirle.
Si tratta dunque all’evidenza di una forma di giurisprudenza difensiva.
Chiaro che, oltre la sua altrettanto evidente difformità dal “diritto vivente”, la correlativa contrazione delle pendenze e la, costosa ed iniqua, onnipresenza filtrante della difesa tecnica, se non abbatte, diminuisce di molto le esigenze attuative dell’ AdS, ponendola sostanzialmente “alla pari”, ma in pejus di qualsiasi altra domanda di giustizia.
Fortunatamente, la maggior parte dei Tribunali italiani, tra gli altri i più grandi (Roma/Milano su tutti) più correttamente seguono la ratio e la litera legis, quale interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, anche in senso costituzionalmente orientato; non impongono una impropria tassa sulla carenza di autonomia personale, una sorta di Robin Hood rule all’incontrario.
E’ per questo però che il cantiere della L. n. 6/2004, a distanza di 10 anni, è ancora aperto; è per questo che l’ applicazione uguale di essa ex art. 3, Cost. deve considerarsi un obiettivo ancora, largamente, da conseguire.
Passi avanti ne sono stati fatti e di significativi, in diverse realtà.
Si tratta di un insieme esperienziale fatto essenzialmente di “prassi virtuose”, di sperimentazioni e realizzazioni, anche di normazione integrativa sub-statuale.
Quanto segue mira a darne una prima sistemazione teorica.
- 3. Le principali esigenze attuative della riforma
Al netto delle giurisprudenze difensive, la storia attuativa dell’ Istituto dell’AdS ha dimostrato la sua grande utilità pratica nella protezione dei diritti della persone fragili.
Come sempre quando l’ordinamento si adegua in ritardo alle esigenze della “modernità”, anche questa tardiva riforma legislativa ha provocato una progressione tumultuosa di procedure aperte.
Masse ingenti di nuovi affari civili non contenziosi si sono in questi anni inserite nell’intasato circuito giudiziario, gravandolo con un peso specifico rilevante, poichè i soggetti agenti/destinatari delle procedure, in misura largamente prevalente rientrano nella categoria dell’ “utenza non professionale”.
La L. n. 6/2004 ha dunque portato/porta con sè non solo problemi di “quantità” ma anche di “qualità”, ingenerando nuove esigenze e nuove difficoltà ad una Istituzione giudiziaria quale quella italiana ormai, purtroppo, cronicamente in affanno.
Passando ad una più articolata “analisi d’impatto”, bisogna appunto partire da una distinzione, d’ordine generale, tra profili quantitativi e profili qualitativi di questa ulteriore emergenza.
Quanto ai primi, il dato “storico” è stato che nel corso di questi dieci anni decine di migliaia di procedure di amministrazione di sostegno sono affluite nei Tribunali italiani, attribuendo ai giudici tutelari ed alle loro cancellerie un carico lavorativo di gran lunga superiore a quello loro spettante in precedenza.
Solo alcuni Tribunali -i più grandi (quali ad es. Roma e Milano)- hanno costituito dei gruppi di lavoro “dedicati”; in tutti gli altri la funzione di giudice tutelare è rimasta in condivisione con le altre funzioni tabellari.
Le cancellerie della volontaria giurisdizione sono state e sono tuttora sommerse dalle procedure di AdS, quasi ovunque con gravi problemi gestionali sia del front office sia del back office.
Per l’utenza si sono ingenerati tempi di attesa anche particolarmente lunghi, certo non compatibili con la, necessaria, speditezza della procedura di protezione de qua; fenomeno affatto infrequente è stato ed è quello della stessa difficoltà di accesso fisico degli utenti ai “luoghi” del servizio, con lunghe code, se non addirittura contigenti giornalieri.
Quanto ai secondi, la “portata” dell’impatto della riforma è stata indubbiamente amplificata dal fatto che, come detto, nella parte assolutamente preponderante dei casi l’utente di questo particolare servizio non possiede alcuna caratteristica di professionalità, trattandosi di persone del tutto comuni, se non addirittura di per sè stesse in difficoltà (in particolare anziani), che quasi sempre per la prima volta varcano la soglia di un Palazzo di giustizia.
Pur trattandosi di una procedura priva di formalismi particolari e gestibile con relativa facilità, tuttavia essa richiede comunque che al proponente ed all’amministratore di sostegno vengano fornite quantomeno le informazioni di base occorrenti per la sua introduzione e per la sua gestione successiva (in particolare, per il rendiconto annuale).
Insomma, nel profilo qualitativo del servizio in questione è insito un aspetto per così dire “consulenziale” che non si pone affatto per gli altri servizi giudiziari sia civili che penali.
Ascolto, consiglio, assistenza gestionale sono perciò, innovativamente, divenuti precisi benchmarks di efficienza/effettività per questo specifico settore dell’attività giudiziaria.
Per la verità, il lavoro del giudice tutelare e della sua cancelleria è tradizionalmente caratterizzato da questa particolarità di approccio funzionale, poichè il “tipo” di utenza l’ha sempre richiesto (tutele; curatele; affari minorili).
Ma un conto è dare un servizio di questo “tipo” a 10, altro, ben diverso, conto è darlo a 1.000.
Questa nuova “logica dei numeri” ha travolto il pur apprezzabile standard funzionale del “vecchio” Ufficio del giudice tutelare, creando l’esigenza di averne uno “nuovo” che, in linea con i tempi e con le esigenze della nuova procedura di tutela coniata, sia in grado di rispondere a questa moderna sfida giudiziaria “di prossimità”.
- 4. Le criticità e le soluzioni (possibili)
Del tutto chiaro era ed è che l’ Istituzione giudiziaria non era e non è in grado di accettare con possibilità di successo questa sfida, se non a due condizioni generali:
- operare opportuni adeguamenti organizzativi interni:
- ricorrere a risorse esterne.
La prima condizione pone delle “rigidità” che vanno da un “minimo” per quanto riguarda i giudici ad un “massimo” per quanto riguarda il personale ausiliario.
In ordine al primo aspetto, pur al netto dell’ineguale situazione di “carico” dei Tribunali italiani, nelle pieghe dei loro organici è di norma senz’altro possibile trovare soluzioni tabellari adeguate alla gestione del servizio, anche perchè esiste comunque la “valvola di sicurezza” del ricorso all’impiego dei GOT, nelle forme consentite dalla normativa secondaria del CSM.
Davvero complicato risulta invece trovare una soluzione soddisfacente alla necessità di potenziamento degli apparati di cancelleria, per la semplice ragione che, con il turn over bloccato da lustri, le cancellerie dei Tribunali italiani si stanno progressivamente svuotando ed ormai, in gran parte del territorio nazionale, si ritrovano in condizioni tali da riuscire a malapena a soddisfare le esigenze del servizio ai minimi termini.
Inimmaginabile è perciò che le esigenze nuove di approccio funzionale che si sono sopra sinteticamente descritte possano essere supportate con l’impiego di mezzi propri dell’Amministrazione giudiziaria.
A meno che non vi sia una radicale inversione di tendenza nella logica dell’acquisizione/distribuzione delle risorse umane da parte del Ministero della giustizia, svolta questa che peraltro non vi è alcuna ragione di prevedere, giacchè non risulta affatto essere nell’agenda politico governativa e che anzi, al tempo della spending review, non è nemmeno allo stato ipotizzabile.
Oggi quindi, ma anche domani, per dare attuazione reale, effettiva all’AdS nel suo profilo dinamico gestionale e di interazione con l’utenza, l’unica alternativa ad un’ ignava attesa di una manna che non verrà, non può essere che quella di cercare fuori dall’apparato giudiziario le risorse operative che mancano.
Le prassi virtuose che hanno fatto “vivere”, anche se “a macchia di leopardo”, la riforma in questi anni, dimostrano che queste risorse ci sono e che però bisogna che i Tribunali le vadano a cercare, ovviamente in un quadro di trasparenza ed affidabilità.
In realtà, il punto di partenza di un ragionamento intorno alle possibili soluzioni di questo specifico problema giudiziario di outsourcing è piuttosto semplice, se non addirittura banale.
L’amministrazione di sostegno infatti interseca o forse meglio si intreccia con problematiche individuali che, in linea generale, sono di competenza e sono quindi spesso seguite dai Centri assistenziali pubblici territoriali.
La tutela delle persone deboli è infatti un preciso compito istituzionale degli uffici pubblici che attuano le politiche sociali assistenziali dei Comuni italiani e delle Aziende sanitarie.
D’altro canto la stessa legge di riforma codifica l’intervento di chi ha la cura/assistenza dei soggetti di cui all’art. 404, Cod. civ., imponendogli addirittura un obbligo alternativo di ricorso/segnalazione dei casi necessitanti l’adozione della misura di protezione in questione (così l’art. 406, terzo comma, Cod. civ.).
L’alleanza con questi interlocutori istituzionali pubblici è perciò del tutto scontata e naturale.
Altrettanto evidente è però che se Atene piange ..
Anche i Comuni e le Aziende sanitarie hanno infatti risorse in decremento e non sono certo in grado di offrirne in misura occorrente alla soluzione delle criticità gestionali che si sono evidenziate.
Per andare oltre questi limiti di operatività delle Istituzioni pubbliche non resta dunque che un’ulteriore via, anch’essa peraltro non difficile da individuare.
Il cosidetto terzo settore o privato sociale è infatti, per tradizione, fortemente impegnato nel campo socio assistenziale, innumerevoli essendo in Italia le associazioni di volontariato che se ne occupano.
Ecco allora che il “quadro” delle sinergie possibili è composto.
Insieme con gli Enti pubblici territoriali istituzionalmente competenti, i Tribunali possono trovare le risorse aggiuntive che loro mancano nel vasto ambito del volontariato sociale.
Il tutto sotto l’egida ed in attuazione dei fondamentali principi costituzionali di “leale cooperazione” e “sussidiarietà”.
- 5. Chi fa cosa. Cosa si può fare
In questo “schema generale”, i ruoli operativi sono dati dalla legge e comunque si ricavano appunto in termini di “cooperazione” e “sussidiarietà”.
La procedura di AdS deve essere gestita dal giudice tutelare all’interno del percorso normativo codificato agli artt. 404, ss. Cod. civ..
Il ruolo della Cancelleria è altrettanto definito dalla normazione, primaria e secondaria.
Salve le poche eccezioni di cui si dirà oltre, le norme finiscono qui, ma, come si è visto, qui non finiscono affatto –anzi- le esigenze attuative dell’AdS.
In particolare:
-chi e come informa l’utenza sulle finalità/modalità della procedura ?
-chi e come assiste e presta consulenza agli AdS nel corso della procedura per i rendiconti, per le istanze di straordinaria amministrazione e per quelle inerenti i consensi ai trattamenti sanitari ?
-chi assume l’incarico di AdS quando non c’è nessuno che sia disponibile ovvero idoneo ?
Come si è detto, la risposta a queste domande non può essere data dall’apparato giudiziario, nemmeno se si “allea” con quello degli Enti pubblici territoriali.
In ogni caso le risposte a queste nuove domande di servizio giudiziario impongono l’ ideazione/creazione di strutture e strumenti ad hoc.
In particolare servono:
-“luoghi” di ascolto ed assistenza;
-elenchi di persone che offrono disponibilità ad assumere il ruolo di AdS.
Questa, necessitata, strada dell’innovazione giudiziaria ha però bisogno di una pregiudiziale ferma:
la gestione dell’ ascolto e dell’ assistenza, l’assunzione dell’ incarico di AdS, toccano questioni di grande delicatezza sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali delle persone (a partire dalla salute passando per la riservatezza e finendo al patrimonio).
E’ perciò evidente che in questa materia l’attenzione e la cautela debbano essere massimi.
In realtà c’è un’ unica modalità operativa che previene e tendenzialmente preserva l’integrità sostanziale del Servizio:
-il “patto base” non può che essere quello tra Istituzioni pubbliche ossia tra il Tribunale e, in via ordinaria, i Comuni del territorio.
Chiaro deve essere in ogni caso che questo Servizio non può essere nè “appaltato” nè “privatizzato”, ma al più può essere “convenzionato”, in uno o più stadi, sulla base di un’ intesa istituzionale formalizzata tra pubbliche Istituzioni.
Non esiste alternativa legittima e corretta a questo principio operativo fondamentale.
Ciò, doverosamente, premesso, un protocollo d’intesa tra Tribunale e Comuni può dunque prevedere, assai linearmente e semplicemente sul piano progettuale, che:
-sia aperto uno Sportello che costituisca centro di ascolto/assistenza;
-sia formato e curato un elenco di soggetti che dichiarano la propria disponibilità ad assumere l’incarico di AdS.
Sempre ferma la premessa, le varianti concrete possono poi essere più d’una, senza che ciò abbia particolare rilievo sull’efficacia del modello operativo così, semplicemente, prospettato.
Peraltro, la possibilità realizzativa di questo “schema teorico” è indissolubilmente connessa alla possibilità che degli Sportelli si occupino e che negli elenchi si iscrivano persone volontarie, con profili personali e competenze adeguate.
Tornando alla “pregiudiziale” di cui sopra, non quindi un volontariato qualsiasi, ma soltanto un volontariato qualificato, anzi, meglio, “certificato”.
Ma chi “qualifica”, chi “certifica” ?
Qui il cerchio si chiude.
Se la progettazione si basa sulla cooperazione istituzionale tra Tribunale e Comune, non potrà che essere il secondo, pur ovviamente d’intesa con il primo, a operare in tal senso quale acquisitore di risorse, che “qualifica”, “certifica”, dunque mette a disposizione dell’A.G. le risorse umane esterne/aggiuntive occorrenti all’attuazione del progetto.
Le esperienze applicative di questo modello operativo, hanno tuttavia posto in evidenza che più esso si sviluppa e si rende efficace, più ovviamente produce e rischia perciò di diventare un autentico boomerang per gli apparati giudiziari.
Che vengono dunque fortemente sgravati dagli sportelli, ma devono poi smaltirne la produzione.
Il rischio è che si crei una strozzatura e che quindi tutti i benefici in termini di efficienza/effettività del servizio in questione vengano dispersi ed annullati.
In questo “snodo”, che sempre la prassi ha svelato essere decisivo, entrano allora in gioco direttamente le risorse finanziarie.
Se infatti il “volontariato puro” è il “cuore” del modello, perchè è quello che gestisce, al meglio e meglio di qualunque altra soluzione, le attività di contatto diretto con l’utenza (front office), non è nè ragionevole nè forse opportuno che questa parte nobile si occupi anche del fondamentale “passaggio della pratica” dallo sportello alla cancelleria ossia del punto di avvio del back office (in particolare: inserimento dati).
Ovvio che se la cancelleria fosse adeguatamente dotata il problema non esisterebbe, ma, come detto e come noto, così non è in quasi tutti i Tribunali italiani.
Per evitare un depotenziamento rilevante del modello operativo che si illustra l’unica strada, a parità di “risorse giudiziarie proprie”, è quindi solo quella dell’impiego di personale contrattualizzato e pagato con risorse finanziarie esterne.
Nello schema-base del patto Tribunale/Comune, queste risorse non possono essere fornite che dall’Ente locale, nell’ambito dei propri programmi di spesa per le politiche sociali.
Infine sul punto, va fatto un rilievo che in realtà è preliminare.
Lo schema operativo teorizzato si fonda sulla scelta di escludere, in via ordinaria, l’impiego, a titolo oneroso, di professionisti (in particolare gli avvocati), come è di contro praticato correntemente in molti Tribunali italiani, anche tra i più importanti.
Chiaro è che se si segue questo alternativo percorso di attuazione della L. 6/2004, molte delle esigenze implicate dalla riforma vengono meno.
Ma a quale prezzo ?
Evidente che il principale è quello della disuguaglianza “davanti alla legge”, posto che l’ “onerosità” della prestazione discrimina chi non se la possa permettere (e tra gli utenti non sono certamente pochi).
Già questo, di per sè, dovrebbe indurre ad abbandonare siffatta modalità attuativa, ancorchè essa sia indubbiamente assai meno complicata ed impegnativa di quella prospettata.
Ma poi comunque il ricorso massiccio all’impiego dei professionisti non tocca in nulla il campo, di gran lunga prevalente, delle amministrazioni gestite con altre risorse, in particolare e normalmente quelle famigliari.
In altri termini il problema dell’ ascolto/assistenza rimane in ogni caso “tale e quale” e perciò andrebbe pur sempre risolto.
Ciò non significa affatto che le categorie professionali, in particolare l’avvocatura, non siano interlocutori assolutamente privilegiati per attuare la riforma.
Significa soltanto che ad esse va dato il ruolo proprio ossia quello di essere chiamate quando serve effettivamente ed a titolo oneroso nei casi e nei modi in cui la legge lo consente (artt. 411, primo comma, 379, Cod. civ.).
Infatti, questa legge può vivere bene la vita per la quale è stata concepita solo se ogni possibile, vecchio e nuovo, protagonista fa, bene, la propria parte.
Ma solo la propria e non quella che spetta ad altri.
- 6. Come si può fare. Il partenariato e le misure di organizzazione giudiziaria
Tutto quanto al § 5, si fa e si può fare anche senza alcun intervento normativo particolare, primario o secondario, dunque ulteriore rispetto alle disposizioni della legge di riforma. Quindi rebus et legibus sic stantibus.
Bastano l’intelligenza e la sollecitudine (se non la passione) di chi dirige i Tribunali e governa i Comuni, serve l’impegno dei giudici tutelari e degli operatori sociali ed è poi indispensabile lo spirito di solidarietà degli italiani.
Su questi presupposti, si possono stipulare accordi scritti alquanto semplici e si mettono in campo anche gli euro, senza peraltro che ne servano tanti.
L’esperienza delle buone prassi dimostra che lo spirito di servizio e in definitiva la buona volontà sono la spinta fondamentale per fare, anche molto, bene.
Per seminare e per raccogliere in questo “campo”.
Trattandosi comunque di regolare parzialmente l’ esercizio di funzioni pubbliche, giudiziarie e socio assistenziali, ovvia esigenza è appunto tuttavia quella di dare alle iniziative occorrenti una “forma minima” che è appunto quella delle convenzioni/protocolli d’intesa tra Istituzioni (Tribunale/Comune) e tra Istituzioni ed Associazioni (privato sociale).
Altrettanto evidente risulta dall’esperienza che scrivere e sottoscrivere un’intesa di partnership non è che il “punto di partenza” di una virtuosa prassi attuativa della L. 6/2004 e che poi sono necessari forti “investimenti” dei partners in termini di progettualità, coordinamento e lavoro.
L’esperienza stessa tuttavia dimostra anche che questi “investimenti” offrono un rendimento in termini di “qualità” del servizio all’utenza, ma anche di progressivo risparmio di risorse, davvero elevato.
In altri termini, quanto, per nulla poco, si impiega in fase di avvio delle intese e per farle “decollare”, poi si capitalizza ed alla fine si recupera con “interessi”, per così dire, in doppia cifra.
Peraltro, un esame attento e non vanaglorioso delle prassi virtuose evidenzia altresì che per mantenere solidità, per avere prospettiva, insomma per “alzarsi di livello” le iniziative di attuazione della riforma richiedono ulteriori interventi, anche, di tipo normativo
Poichè l’AdS è una procedura giudiziaria, comunque sia la sua gestione implica anzitutto e primariamente scelte organizzative interne all’apparato giudiziario.
Orbene, non è dubbio che se c’è una Cenerentola nei Tribunali italiani questa è sicuramente il giudice tutelare.
Su tutto e prima di tutto basti la considerazione che nella Circolare del CSM sulle Tabelle di organizzazione degli Uffici giudicanti per il triennio 2014/2016, peraltro sulla scorta di una risalente consuetudine di tal tipo di normazione secondaria, alla funzione de qua si dedica uno spazio minimo, con “direttive” assai late e senza “vincoli” particolari (cfr. art. 24.1, di detta Circolare).
In buona sostanza è rimessa alla discrezionalità pressochè totale dei Presidenti di Tribunale stabilire in che modo organizzare il proprio ufficio in parte qua.
I risultati di ciò sono non raramente infelici, qualche volta addirittura disastrosi; comunque configurano la funzione tutelare sul territorio nazionale come un vestito di Arlecchino, per così dire “variopinto”, in alcuni punti addirittura “strappato”.
Questa ovviamente non è una via che porta all’uguaglianza di “tutti” davanti alla legge ed a questa legge in particolare.
Va dunque posta con forza la rivendicazione verso il CSM per una normazione tabellare più attenta ed idonea a garantire standards uniformi, tenuto comunque conto delle diversità tra gli Uffici giudiziari e quindi con la necessaria flessibilità.
Fermo dovrebbe essere il principio della “dotazione minima” dell’ ufficio tutelare, secondo ragionevoli criteri di riparto interno agli uffici ed in base alle loro dimensioni, quindi alla correlativa entità degli affari da trattare.
Chiaro è che solo i grandi Tribunali (Roma, Milano, Napoli etc.) possono permettersi di avere gruppi di lavoro specializzati/dedicati, mentre per tutti gli altri medi e piccoli non può esserci alternativa alla “promiscuità”, secondo formule appunto “flessibili”.
Al contempo le previsioni tabellari non possono che stabilire un’ ampia facoltà d’impiego dei GOT, soprattutto per l’onerosa fase procedimentale delle audizioni (beneficiari ed altri interessati) ed in particolare di quelle “esterne” agli uffici giudiziari.
Ciò che tuttavia appare essenziale/indispensabile è che si crei un “obbligo tabellare” -non derogabile- per l’impiego di almeno un magistrato professionale nell’ufficio tutelare.
Le ragioni, evidenti, sono almeno due:
-perchè nelle procedure di AdS si pongono, non infrequentemente, situazioni decisorie di particolare delicatezza (senza arrivare ai “fine vita”, basti pensare alle autorizzazioni in materia di trattamenti sanitari implicanti consenso informato);
-perchè l’ indispensabile attività di gestione organizzativa dell’Ufficio, in particolare delle risorse “esterne” e dei correlativi rapporti di partenariato, deve essere fatta da (almeno) un magistrato professionale.
Altro tema, ancora più delicato, è quello delle dotazioni di personale ausiliario di cancelleria.
Della situazione di grave sofferenza di questa parte dell’apparato di giustizia italiano si è già detto sopra ed è peraltro fatto notorio.
La verità è che in questo settore la “coperta” è, attualmente e chissà fino a quando, davvero molto stretta, se non addirittura strettissima, in qualche ufficio quasi al limite della stessa possibilità di erogazione del servizio.
In questo sconfortante quadro, è comunque indispensabile che le cancellerie dei G.T. abbiano anch’esse una “dotazione minima” che almeno eviti il formarsi di tappi, di diaframmi che limitino in misura rilevante il normale corso delle procedure, in tempi ragionevoli.
Bisogna pensare che l’amministrazione di sostegno in via ordinaria implica una tempistica accelerata ed in qualche caso addirittura impone l’urgenza (es.: applicazione di PEG).
Non è dunque in alcun modo accettabile che la necessaria continuatività della presenza attiva del G.T. sia inficiata dall’ “assenza” della sua cancelleria, sicchè risulta chiaro che quella della “sufficienza” del personale ausiliario è/deve essere una questione pregiudiziale e prioritaria per la Dirigenza giudiziaria ed amministrativa dei Tribunali.
D’altro canto -qui il “cerchio” si chiude- è proprio su questo terreno che le intese di cui si è detto offrono le migliori chances.
Ad investimenti invariati nel campo del personale di cancelleria, l’afflusso di risorse umane esterne è infatti l’unico modo per uscire da impasses altrimenti irresolubili o quasi, sempre rispetto all’esigenza di garantire standards di servizio quantomeno accettabili.
- 7. segue. Il ruolo delle Regioni e della legislazione regionale
Come si è rilevato, a partire dall’ Istituzione giudiziaria che ne è la prima responsabile operativa, lo stato attuale dell’attuazione della L. n. 6/2004 è alquanto variegato.
Le prassi virtuose stanno fiorendo e sono un vero e proprio arcobaleno di iniziative che, anche se diversamente connotate, hanno dei punti fermi comuni (ascolto, assistenza, amministratori volontari) ed in ogni caso gli stessi obiettivi generali.
E’ tuttavia evidente che le pur meritevoli spinte locali rischiano di rimanere chiuse nel loro “guscio” e perciò depotenziate, comunque non in grado di estendersi e coordinarsi.
Questo è il loro vero limite ed è questo il limite più profondo e generale di concretizzazione della riforma in termini di eguaglianza sostanziale di tutti i suoi destinatari.
Si è anche detto che tale situazione dipende, essenzialmente, dalla scarsità/disomogeneità distributiva delle risorse, materiali ed umane, sulle quali, oggi, l’Istituzione giudiziaria può contare.
E tuttavia, anche “al lordo” di questa pre-condizione sfavorevole (assai difficile è essere ottimisti al riguardo, quantomeno nel breve-medio periodo), un rimedio, d’ordine generale, esiste.
C’ è infatti un “livello” territoriale, c’ è un interlocutore istituzionale che ha la competenza ed anche la “forza” per intervenire utilmente:
sono le Regioni italiane.
Esclusa ovviamente ogni competenza diretta di questi Enti in materia giurisdizionale, è peraltro pacifico che essi abbiano una competenza “concorrente” con quella statale e con quella degli Enti territoriali minori in materia di politiche socio-assistenziali.
Ne risulta evidente perciò che esiste un preciso spazio di intervento delle Regioni italiane nell’attuazione della legge statale sull’amministrazione di sostegno:
-non è quello dell’intervento diretto, riservato, nell’ambito delle rispettive complementari attribuzioni ai Tribunali (uffici tutelari) ed ai Comuni (loro consorzi ovvero aziende sanitarie et similia), con il supporto orizzontalmente sussidiario del privato sociale;
-è quello dell’indirizzo, del coordinamento, del conferimento di risorse finanziarie.
E non è poco. Anzi.
L’intervento regionale è infatti indispensabile per passare dal tempo di un romantico pionierismo filantropico (a “macchie di leopardo”) a quello (omogeneo) di un’organizzazione moderna, efficiente e valoriale del sistema di protezione delle persone deboli, quale “promesso” dal legislatore della riforma.
Questo non è un ragionamento illuminista e visionario, per la semplice ragione che, da tempo, alcune Regioni italiane sono entrate in gioco, anche se in termini e con risultati diversi, ma dimostrando comunque la loro potenziale decisività.
Si tratta principalmente della Lombardia, dell’Emilia Romagna, del Friuli Venezia Giulia, della Provincia autonoma di Trento, mentre iniziative di minor ampiezza, anche se comunque significative, hanno altresì posto in essere il Piemonte, la Toscana, il Veneto ed altre ancora.
In linea generale, i metodi di questi interventi regionali sono essenzialmente tre:
-delibera amministrativa d’indirizzo (Lombardia);
-legge regionale ad hoc (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trento);
-iniziative promozionali singole.
Evidente è che i primi due “tipi” hanno un tasso di efficacia ben maggiore ed infatti per nulla casualmente nei rispettivi i territori si sono maggiormente sviluppate le buone prassi attuative dell’AdS.
Tra i due, appare preferibile il secondo ossia l’adozione di una legge regionale che disciplini specificamente e nel dettaglio le finalità/modalità dell’intervento regionale, di quello degli altri Enti pubblici e del volontariato, dettando le linee del rapporto di coordinamento con l’A.G.
Ciò essenzialmente perchè l’atto normativo ha e da il senso della maggior stabilità, della “codificazione”, della continuità, anche finanziaria. Insomma, perchè è meno “programmatico” e più “precettivo” di una delibera giuntale d’indirizzo.
A condizione però che la legge regionale non sia una “legge-quadro”, ma invece sia concretamente puntuale, per così dire self executing e sia comunque accompagnata dalla pur anche necessaria normativa regolamentare.
Quindi una legge che oltre ai “principi” ed agli “indirizzi”, contenga previsioni precise, indichi strumenti e li regoli, salve le necessarie indicazioni pratico-operative da riservare al regolamento attuativo.
Una legge che offra “garanzie” ai Tribunali.
Le “garanzie”, necessarie, che derivano dalla natura pubblica degli interventi, della rete e dei “patti”, in cui deve inserirsi l’ essenziale contributo delle associazioni di volontariato.
La normativa, primaria e secondaria, della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia e della Provincia Autonoma di Trento (rispettivamente L.R. FVG n. 19/2010 e L.P. Trento n. 4/2011) hanno nel loro dna e nel loro corpus tutto questo; perciò costituiscono un esempio particolarmente significativo di ciò che è meglio fare.
Questi plessi normativi, senz’altro self executing, hanno infatti codificato e puntualmente regolamentato i principi (“leale cooperazione”; “sussidiarietà orizzontale”) e gli strumenti di base (“sportelli”; “elenchi di AdS volontari”), attuati ed utilizzati nelle buone prassi e di cui si è detto ai §§ 5-6.
Così si è messo da subito “in mano” ai soggetti interessati -chi gestisce/aiuta a gestire le procedure di AdS e chi se ne avvale- opportunities/utilities che la L. n. 6/2004 non offre e che tantomeno sono in grado di dare, da soli, i Tribunali.
Ai quali, in tal modo fornendo un aiuto unico ed insostituibile, si toglie la possibilità di avvalersi del pur fondato alibi della carenza di risorse per le proprie, non infrequentemente gravi, insufficienze nell’erogazione del servizio giudiziario in questione.
In altri termini, la legislazione regionale quindi non solo può aiutare, ma può anche esercitare una fondamentale moral suasion affinchè i Tribunali giochino con efficacia la “partita” della tutela dei diritti delle persone deboli, tramite una sostanziale, “globale”, efficiente gestione delle procedure di AdS.
E’ questa una “carta” che l’esperienza evidenzia come assolutamente decisiva.
Infatti creare sistemi operativi a dimensione regionale e progressivamente estenderli a tutto il territorio nazionale sulla base di principi e metodi sostanzialmente comuni, può trasformare, finalmente, le parole della legge di riforma in fatti uguali per tutti i suoi destinatari.
- 8. Il profilo costituzionale dell’ attuazione della L. n. 6/2004
E’ opinione comune dei commentatori ed è senz’altro corretto ritenere che la legge istitutiva dell’AdS sia una legge di diretta attuazione di principi costituzionali fondamentali.
Anzitutto degli artt. 2 e 3, Cost., laddove sanciscono “riconoscimento” e “garanzia” ai diritti inviolabili dell’uomo e della sua “personalità” ed affermano l’ uguaglianza “davanti alla legge .. senza distinzioni ..di condizioni personali” ed indicano quale “compito della Repubblica” la “rimozione degli ostacoli” che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Ma poi anche dell’art. 32, Cost. ossia del diritto alla salute, ma con il divieto di trattamenti sanitari non consentiti dall’interessato, fuori dai casi previsti dalla legge e sempre nel limite del “rispetto della persona umana”; ed ancora, strumentalmente ed in generale, l’art. 24, Cost., sì come fonda i diritti di tutela giurisdizionale e di difesa.
Pregna quindi qual’è di rilevanti “valori costituzionali”, l’attuazione della L. n. 6 del 2004 è perciò attuazione diretta di questi valori, così come al contrario la sua carente attuazione rappresenta un vulnus della Costituzione medesima, in partis quibus.
Una ferita ancor più grave perchè la denegata/inadeguata risposta giudiziaria in questo settore colpisce le persone più deboli e quindi più bisognose di un’applicazione equa, uguale, effettiva della legge: perché si tratta di persone che, sovente, non hanno possibilità alternative di protezione/promozione ed addirittura, in qualche caso, di sopravvivenza stessa.
L’attuazione della riforma dell’amministrazione di sostegno coinvolge dunque i doveri costituzionali e deontologici fondamentali di chi è incaricato di rendere giustizia e di chi per compito istituzionale deve prestare la sua cooperazione; in ultima analisi, interpella le loro coscienze e quelle delle persone che, per vincolo famigliare ovvero per senso umanitario, aiutano altre persone, appunto “sostenendole”.
Le considerazioni fin qui sviluppate e particolarmente le ultime, evidenziano che, in fondo, la riforma ha messo e mette costantemente in gioco scelte valoriali, gerarchie di valori, che sono radicate in profondità nella nostra Costituzione.
Per questo, attuare la L. n. 6/2004 significa attuare, direttamente, la Costituzione e chiunque, per mestiere o per solidarietà, lo faccia è quindi un artefice diretto del programma costituzionale di emancipazione delle persone dalle loro variamente determinate fragilità.
Questo significa fare, sinergicamente, giustizia di prossimità e perciò, anche per tale via ed in questo nuovo modo, rendere la giustizia una “proprietà comune come l’acqua dei pozzi” (Voltaire, Candide).