Magistrato e dottore di ricerca in diritto privato, ha svolto funzioni di Pretore presso la Pretura Circondariale di Ancona e di Giudice presso il Tribunale Civile di Roma dal 1992 al 2013. Negli anni 2004-2011 ha svolto, in particolare, funzioni di Giudice Tutelare. Autrice di scritti e relatrice in convegni in materia di Amministrazione di Sostegno, è attualmente Consigliere della Corte di Cassazione.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
Il ‘diritto vivente’ e il rapporto medico/paziente
Trieste, 29 marzo 2014
Un principio generalissimo affermato in materia dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n.438 del 18/11/2008) è quello per cui, dall’insieme delle fonti normative che regolano il diritto al consenso informato, emerge la funzione di sintesi tra due diritti fondamentali della persona, ossia il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla salute, al punto che in tema di tutela della salute il consenso informato deve essere ritenuto un principio fondamentale. Il diritto vivente costituito dalle statuizioni costituzionali e dalla Corte di Cassazione (Sez.3 civ., n.7237 del 30/03/2011, Rv.616458; Sez.3 civ. n.3847 del 17/02/2011, Rv.616274; Sez.3 civ. n.9315 del 20/04/2010, Rv.612448; Sez. 1 civ. n.21748 del 16/10/2007, Rv. 598963), nonché dall’osmosi tra attività interpretativa, da un lato, e norme interne ed internazionali, dall’altro, impone allo Stato e alle sue istituzioni, tra le quali il giudice, di mantenere in materia di interventi sanitari sul paziente la centralità della dimensione della persona umana nella sua concreta esistenzialità e nella sua dignità, che costituisce il faro dell’attività interpretativa delle norme.
Nella giurisprudenza civile si ritiene che possa incorrere in responsabilità, così come il chirurgo che non esegua interventi necessari, anche il chirurgo che esegua interventi che il paziente ha espressamente rifiutato, indipendentemente dal fatto che tale omissione esponga a rischio la vita del paziente. Tuttavia non risultano sinora condanne di medici che abbiano salvato la vita al paziente, incentrandosi il giudizio sulla validità del dissenso del paziente a ricevere cure salvavita e ritenendosi necessario che tale dissenso sia attuale ed inequivoco.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione indica, ad esempio, in una sentenza del 2007 (Sez.3, n.4211 del 23/02/2007, Rv.594993) che il rifiuto di determinate terapie costituisce un diritto fondato sul combinato disposto degli artt.32 Cost., 9 legge 28 marzo 2001, n.145 e 40 del codice di deontologia medica ma che il medico, di fronte ad un peggioramento imprevisto o imprevedibile delle condizioni del paziente, ove non possa verificare la persistenza del dissenso alle terapie, sia legittimato ad intervenire e praticare la terapia già rifiutata, ove la stessa sia indispensabile per salvare la vita del paziente, ritenendo il dissenso non più valido. Tale indirizzo risulta confermato in una sentenza del 2008 (Sez.3, n.23676 del 15/09/2008, Rv.604907), in cui si ribadisce che il paziente ha sempre il diritto di rifiutare le cure mediche, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte, ma anche che il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco e attuale. La Corte ha, in particolare, ritenuto che non sia sufficiente una generica manifestazione di dissenso formulata quando il paziente è in buone condizioni di salute, essendo necessario che il dissenso sia nuovamente manifestato dopo che il paziente sia pienamente informato in merito alla gravità della propria situazione ed a i rischi derivanti dal rifiuto delle cure, per cui il paziente che desideri essere certo che, nel caso in cui dovesse trovarsi in stato di incapacità naturale, non sarà sottoposto a terapie contro la sua volontà, è tenuto a conferire ad un terzo una procura speciale ovvero a specificare in una dichiarazione scritta di voler rifiutare le cure anche nel caso in cui venisse a trovarsi in pericolo di vita. Occorre, qui, precisare che il caso trattato in questa pronuncia riguardava una causa sorta negli anni 90, dunque in epoca ampiamente antecedente l‘introduzione nel codice civile dell‘art.408 ad opera della legge n.6/2004.
L’esercizio da parte del paziente della libertà di autodeterminazione ha assunto nel tempo sempre maggiore rilievo, tanto che, nella giurisprudenza più recente, alla colpa del sanitario per la violazione delle leggi dell’arte, si è affiancata la colpa per la violazione dell’obbligo di informare il paziente in merito ai rischi, ai vantaggi o alle alternative dell’intervento.
Si tratta di una responsabilità per colpa omissiva in cui il medico assume una posizione di garanzia in ragione della previsione normativa del cosiddetto obbligo di informazione del paziente.
Le fonti normative dell’obbligo di informazione sono state delineate dalla Corte Costituzionale, che ha riconosciuto al consenso informato la natura di vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi nell’art.2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, negli artt.13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono rispettivamente che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, nell’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, in cui si riconosce “il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione” raccomandandosi che “tutti i gruppi della società, in particolare i genitori e i minori, ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore”, nell’art.5 della Convenzione sui Diritti dell’uomo e la Biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145, che prevede che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato”, nell’art.3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, che sancisce che “ogni individuo ha il diritto alla propria integrità fisica e psichica” e che nell’ambito della medicina e della biologia deve essere in particolare rispettato, tra gli altri, “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”, trovando espressione anche in diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche come, ad esempio, l’art. 33 legge 23 dicembre 1978, n. 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, l’art.3 legge 21 ottobre 2005, n. 219, contenente la nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati, l’art.6 legge 19 febbraio 2004, n. 40, che disciplina la procreazione medicalmente assistita.
In seguito alla Convenzione di Oviedo, anche il codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri il 3 ottobre 1998 aveva proceduto ad una revisione del concetto di consenso informato, elaborandone una definizione in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione. L’art. 30 di tale codice aveva, infatti, previsto che il medico dovesse fornire al paziente “la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”; l’art.32, a sua volta, stabiliva che il medico non dovesse intraprendere alcuna attività diagnostico-terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente; con l’ulteriore necessità della forma scritta per la manifestazione di tale consenso nell’ipotesi in cui la prestazione da eseguire comportasse possibili rischi per l’integrità fisica del soggetto; l’art.34 stabiliva che il medico dovesse attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona.
Simili risultati sono stati ribaditi anche nei successivi codici deontologici, approvati dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006 ed il 16 marzo 2013, con un ampliamento dei contenuti dell’informazione (art.33) e con l’introduzione, nell’art. 35, della chiara regola per cui “Il medico non intraprende attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato della persona assistita capace o in presenza di suo documentato dissenso”, aggiungendo – quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio dell‘attività medica – che “in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
E’ consolidato nella giurisprudenza della Corte il principio in base al quale costituisce violazione del diritto inviolabile all’autodeterminazione l’inadempimento da parte del sanitario all’obbligo di chiedere il consenso informato al paziente nei casi previsti (Sez.U, n.26972 del 11/11/2008).
L’obbligo di informazione, genericamente inteso con riferimento ai benefici, alle modalità dell’intervento, alle eventuali possibilità di scelta tra diverse tecniche operatorie ed ai rischi prevedibili in sede post-operatoria, è stato inteso dalla giurisprudenza della Corte come un obbligo che si estende a tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che il sanitario intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità, ivi comprese eventuali variazioni del programma operatorio (Sez.3, n.15698 del 2/07/2010, Rv.613998).
L’autonomia dell’obbligo di informazione rispetto agli altri obblighi gravanti sul sanitario è stata chiaramente affermata dalla Corte in una sentenza del 2011 (Sez.3, n.16543 del 28/07/2011, Rv.619495), in cui si è esaminato il rapporto, in una ipotetica scala di valori, tra il diritto di autodeterminazione del paziente e il bene della vita, dunque il diritto alla salute e all’integrità psicofisica. In tale pronuncia si trova affermato il principio per cui il paziente deve essere messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con volontà consapevole delle implicazioni, attraverso un’informazione adeguata che permetta allo stesso di avere piena conoscenza della natura, della portata e della estensione dei rischi, dei risultati conseguibili e delle eventuali conseguenze negative. Da tale principio la Corte ha tratto la conseguenza che, anche in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano, tuttavia, derivate conseguenze dannose, sussiste l’inadempimento del sanitario all’obbligo di informazione qualora tale intervento non sia stato preceduto da adeguata informazione, a meno che si verifichi, durante l’intervento programmato ed assentito, un fatto nuovo che ponga a repentaglio la vita del paziente e venga ritenuto medicalmente indispensabile.
Il giudice di legittimità ha, dunque, attribuito notevole ampiezza agli ambiti dell’obbligo di informazione, escludendone solo i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti al caso fortuito.
Il consenso, inoltre, deve essere continuato; ciò significa che, oltre ad essere necessario all’inizio della cura, deve essere richiesto e riformulato per ogni singolo atto terapeutico e diagnostico che sia suscettibile di cagionare autonomi rischi (Sez.3 civ., n.364 del 15/01/1997, Rv.501774), fatta eccezione per gli interventi urgenti, nel qual caso il consenso prestato dal paziente si considera implicitamente esteso anche alle operazioni “complementari”, come ad esempio quella di sostegno, durante l’intervento, delle risorse ematiche che siano assolutamente necessarie e non sostituibili con tecniche più sicure (Sez.3 civ., n.20832 del 26/09/2006, Rv.594549).
Ma già in precedenza (Sez.3, n.2847 del 9/02/2010, Rv. 611428) la Corte aveva delineato i confini entro i quali potesse configurarsi un diritto del paziente al risarcimento del danno derivante dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sè considerato, specificando che si dovesse trattare di conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità, tali da superare la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale, dunque un danno non futile. Non senza specificare che lo stesso danno alla salute cagionato da un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito, tuttavia non preceduto da un’adeguata informazione del paziente, potesse trovare ristoro nel caso in cui il paziente avesse dimostrato che, se informato, avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.
La estrema prudenza espressa dalla giurisprudenza di legittimita‘ con riguardo alle obbligazioni risarcitorie conseguenti alla violazione dell‘obbligo d‘informazione in se‘ considerato si giustifica in ragione del necessario bilanciamento del diritto all‘autodeterminazione con il diritto alla salute.
Occorre, poi, stabilire chi debba dare il consenso all’atto medico. Per essere efficace, il consenso deve essere prestato da soggetto capace di intendere e di volere, non potendosi in tal caso, ad esempio per evitare traumi al malato, richiedere il consenso ai congiunti più stretti. Per il soggetto legalmente incapace il consenso deve essere prestato da chi ne ha la rappresentanza legale, ad esempio i genitori per il minore. Per colui che si trovi in stato di incapacità naturale trova oggi applicazione la disciplina dell‘Amministrazione di sostegno, non senza ricordare che al medico è consentito intervenire per eseguire un trattamento urgente e indifferibile, essendo la sua condotta giustificata dallo stato di necessità (art.54 cod.pen.). La colpa del medico è stata esclusa anche qualora lo stato di necessità sia incolpevolmente supposto (Sez.3 civ., n.4211 del 23/02/2007, Rv.594993).
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Nella giurisprudenza penale il principio della liceità della condotta del medico solo in presenza di un consenso libero e informato del paziente non subisce deroghe per cui, anche nel settore della responsabilità penale, il consenso espresso dal paziente a seguito di un’informazione completa sugli effetti e sulle possibili controindicazioni di un intervento chirurgico è presupposto di liceità dell’attività medica (Sez.4, n.11335 del 16/01/2008, Rv.238968). In altre parole, in assenza di consenso informato, l’attività medico-chirurgica costituisce atto illecito, a meno che non ricorra l’esimente dello stato di necessità di cui all’art.54 cod. pen. (Sez.4, n.34521 del 26/05/2010, Rv.249817). Risponde, quindi, del reato di lesioni personali dolose il medico che sottoponga, con esito infausto, il paziente ad un trattamento chirurgico in presenza dell’espresso dissenso del paziente stesso (Sez.4, n.21799 del 20/04/2010, Rv.247341).
La giurisprudenza penale della Corte tende a valorizzare, con riguardo al profilo soggettivo del reato, la finalità curativa dell’attività chirurgica, che non si concilia con l’elemento soggettivo della preterintenzione o del dolo, ad eccezione che in casi estremi in cui l’intervento venga effettuato per scopi esclusivamente scientifici o in assenza di finalità terapeutiche, in sostanza per fini estranei alla tutela della salute. Il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento non assentito e in violazione delle regole dell’arte medica, quando nella sua condotta sia rinvenibile una finalità terapeutica, risponderà, pertanto, di omicidio colposo o di lesioni colpose ove l’evento sia riconducibile alla violazione di una regola cautelare (Sez.4, n.34521 del 26/05/2010, Rv.249818).
Particolare importanza va attribuita alla pronuncia con la quale le Sezioni Unite penali hanno affermato che l’intervento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato non configura il reato di violenza privata o di lesioni personali dolose, qualora si sia concluso con esito favorevole (Sez.U, n.2437 del 18/12/2008, dep.21/01/2009, Giulini, Rv.241752). Nella giurisprudenza penale della Corte si era, infatti, verificato il seguente contrasto: secondo un primo orientamento, la mancanza di un consenso opportunamente informato del malato o la sua invalidità per altre ragioni, determinava l’arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salva l’ipotesi dello stato di necessità; secondo un altro orientamento, invece, la volontà del paziente svolgeva un ruolo decisivo soltanto quando si fosse espressa in forma negativa, essendo il medico legittimato a sottoporre il paziente, affidato alle sue cure, al trattamento terapeutico ritenuto necessario per la salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema dell’esistenza di eventuali scriminanti, essendo da escludere in radice che la condotta del medico che fosse intervenuto in mancanza di consenso informato potesse corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Con riferimento, poi al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, il contrasto verteva anche sul bene giuridico tutelato dalle norme che disciplinano il consenso informato, ritenendo alcune pronunce che fosse ipotizzabile il reato di lesioni volontarie, anche con esito favorevole dell’intervento, sussistendo la materialità di atti integranti il concetto di malattia di cui all’art.582 cod. pen., con la precisazione che, qualora il sanitario avesse agito nella convinzione dell’esistenza del consenso, il criterio di imputazione soggettiva dovesse essere quello colposo; secondo un altro indirizzo, invece, l’arbitrarietà dell’intervento poteva assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente, configurandosi pertanto esclusivamente il delitto di violenza privata, in ragione del fatto che il trattamento medico chirurgico è volto a rimuovere e non a cagionare una malattia.
Le Sezioni Unite, premesso che il presidio penale deve profilarsi quale extrema ratio rispetto ai meccanismi sanzionatori operanti sul terreno civilistico-risarcitorio o amministrativo-disciplinare, hanno preso atto del recepimento in sede penale della tesi civilistica della autolegittimazione dell’attività medica, la quale rinverrebbe il proprio fondamento nella finalità di tutela della salute come bene costituzionalmente garantito, anzi protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana (Corte Cost. n.432 del 25/10/2005). D’altro canto, richiamando una pronuncia della Corte Costituzionale del 1990 (n.471), le Sezioni Unite hanno ricordato come la Consulta avesse fornito una ricostruzione del valore costituzionale dell’inviolabilità della persona in termini di “libertà”, nella quale è postulata e attratta la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo, aprendo la strada alla tesi dottrinaria secondo la quale l’entrata in vigore della Carta Costituzionale avrebbe prodotto modifiche tacite all’art. 5 cod. civ., sostituendo al concetto statico di integrità fisica, come potere di disporre del proprio corpo, un concetto dinamico di salute, come libertà di decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono e interessano il proprio corpo.
I giudici delle Sezioni Unite hanno, dunque, affermato la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che realizza quanto meno una illegittima coazione dell’altrui volere (più recentemente, Sez.4, n.21799 del 20/04/2010, Pmt in proc. Petretto, Rv.247341). Quanto, invece, al caso in cui l’intervento abbia prodotto un beneficio per la salute del paziente “in assenza” di consenso espresso allo specifico trattamento praticato, a differenza di quanto affermato in sede civile, la giurisprudenza penale ha ritenuto che non necessariamente il mancato rispetto delle regole di deontologia medica e dei principi affermati in tema di consenso informato dalla Corte Costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di legittimità determini l’automatica applicabilità delle fattispecie penali. Hanno, quindi, ritenuto impossibile configurare il delitto di violenza privata, sia perché l’elemento oggettivo di tale reato è costituito dall’aggressione e messa in pericolo di beni quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di movimento del soggetto passivo, sia perché anche il requisito della costrizione presenta elementi di problematicità con riferimento all’ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro intervento chirurgico e relativa anestesia. Ma, anche con riferimento al reato di lesioni di cui all’art. 582 cod. pen., hanno evidenziato l’incompatibilità concettuale tra lo svolgimento dell’attività sanitaria e l’elemento soggettivo che deve sussistere perché possa ritenersi integrato il delitto di lesioni volontarie e, in ogni caso, il venir meno del danno alla salute, che è elemento tipico di tale reato, qualora l’atto operatorio abbia prodotto un beneficio per la salute, accettando un concetto di malattia come processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo, escludendo da tale concetto le mere alterazioni anatomiche e le sofferenze causate dall’atto operatorio in sè.
Valorizzando, dunque, l’obiettivo ultimo dell’attività medico-chirurgica, che è quello di tutelare la salute del paziente, i giudici delle Sezioni Unite hanno concluso che, a differenza del dissenso espresso, il mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani ma non su quello penale. Se, invece, l’esito dell’intervento sia stato infausto, la condotta del sanitario, avendo cagionato una “malattia”, sarà soggetta a valutazione come condotta tipica del reato di lesioni, eventualmente nella forma colposa, trattandosi pur sempre di condotta volta a fini terapeutici.
In conclusione, mentre secondo la giurisprudenza civile l’intervento sanitario in assenza del consenso informato del paziente può assumere rilevanza, a fini risarcitori, indipendentemente dall’esito dell’intervento, secondo le Sezioni Unite penali l’esito dell’intervento assume valore discriminante tra fatti penalmente irrilevanti ed illecito penale.
Ma tale differenza di posizioni dipende, a ben vedere, dal diverso significato attribuito nei due settori ai concetti di malattia, cura, guarigione.
Quest’ultimo aspetto è stato, infatti, messo in discussione dalla Sezione quarta penale (Sez. 4, n.34521 del 26/05/2010, Pg in proc. Huscher e altri, Rv. 249817, alla quale rinvio anche per un’analitica disamina della giurisprudenza penale sull’argomento), che ha osservato come l’esperienza dimostri che esistono, e sono assai frequenti, casi nei quali il beneficio esiste ma esistono anche conseguenze negative: si pensi al caso in cui, per contrastare una forma tumorale, il medico chirurgo sottoponga il paziente ad una mutilazione gravemente invalidante; qui non ci si trova in presenza della mera possibilità di opzione tra varie scelte terapeutiche, ma di un risultato che non può essere aprioristicamente ritenuto “fausto” perché, pur essendosi risolto in un risultato per alcuni aspetti vantaggioso, ha comunque provocato una compromissione (che può anche assumere aspetti di rilevante gravità) della salute e del benessere del paziente. In tali ipotesi, si è detto, non è sempre corretto escludere la responsabilità penale del medico con riferimento alle conseguenze dell’intervento. Sarà dunque necessario chiarire cosa s’intenda per esito fausto dell’intervento e per benessere del paziente, ossia se ci si riferisca esclusivamente alla guarigione dalla patologia che s’intendeva curare oppure se si debba tenere conto delle menomazioni provocate per giungere a tale guarigione.
Certo è che i profili di rilievo penale dell’obbligo d’informazione dovranno essere rivisitati dopo l’entrata in vigore dell’art.3 della l.8 novembre 2012, n.189, meglio nota come Legge Balduzzi, che esclude la responsabilità penale del sanitario che si sia attenuto alle regole dell’arte, a meno che non abbia tenuto un comportamento gravemente colposo. Si dovrà, pertanto, approfondire la questione se le norme deontologiche ed i principi normativi in tema di consenso informato possano considerarsi regole a contenuto cautelare.
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Quanto fin qui osservato in merito al consenso informato come espressione del diritto fondamentale della persona all’autodeterminazione impone di richiamare il monito proveniente dalla Corte di Strasburgo (efficacemente richiamato nel recentissimo scritto di R. Conti, I giudici e il biodiritto).
Il diritto alla vita è enunciato all’art.2 della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ed è un valore fondamentale di tutte le società democratiche che ogni Paese deve rendere effettivo (Corte EDU, 27 settembre 1995, Mc Cann e altri c. Regno Unito; Corte EDU, 9 novembre 2006, Luluyev c. Russia), anche perché è alla base della possibilità di godimento di ogni altro diritto fondamentale (Corte EDU, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito).
Ma, secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo, anche il diritto all’autodeterminazione trova il suo riconoscimento come diritto fondamentale nella Carta (art.8 CEDU); la libertà di accettare o rifiutare uno specifico trattamento medico, o di scegliere una forma alternativa di trattamento costituisce, poi, un aspetto essenziale del principio di autodeterminazione e di autonomia personale (Corte EDU, 10 giugno 2010, Jeovah’s Witnesses of Moscow c. Russia; Corte EDU, 9 marzo 2004, Glass.c.Regno Unito).
La Cedu ha, però, sempre più spesso richiamato i giudici nazionali a compiere un’opera di bilanciamento degli interessi, sottolineando come riconoscere un diritto fondamentale non significhi attribuirgli carattere assoluto ed incomprimibile. Lo stesso diritto all’autodeterminazione, riconosciuto al punto da includervi il diritto della persona di rinunciare a vivere (Corte EDU, 20 gennaio 2011, Haas c. Svizzera), deve necessariamente porsi a confronto con altri diritti fondamentali, laddove il singolo entri in relazione con la collettività e con le istituzioni (Corte EDU, 26 marzo 2013, Rappaz c. Svizzera; Cass. Sez. 1 civile, n. 23707 del 20/12/2012, Rv. 624803) e, aggiungerei, non ultimo, quando le istituzioni si debbano confrontare con i casi di limitata capacita‘ naturale del singolo.
La conclusione alla quale sono pervenuti altri prima di me, e che ritengo di sottoscrivere, è che in nome del diritto all’autodeterminazione non si debbano e non si possano giustificare scelte che mortifichino la dignità umana, essendo quest’ultima un valore insuscettibile di bilanciamento, la cui tutela impone, in taluni casi, un intervento doveroso dei singoli e dello Stato, anche a costo di dover comprimere l’ambito di espressione di altri diritti fondamentali.
Dignità umana che suggerisce di giudicare con estremo rigore, nella relazione medico/paziente, ogni intervento che sia stato determinato da meri scopi scientifici, di ricerca o da scopi esclusivamente estetici, si sia risolto in un intervento demolitivo coscientemente inutile, ovvero in un intervento particolarmente invasivo per curare una patologia che poteva essere affrontata agevolmente con diversi mezzi terapeutici e, per altro verso, di valutare con altrettanta prudenza l’intervento medico che, a prescindere dal consenso del paziente, si sia rivelato pura espressione dell’intento di salvaguardarne la vita e la salute.
Eugenia Serrao