Nata a Trieste nel 1961 si laurea in Medicina e Chirurgia nel 1987 discutendo una tesi in geriatra. Opera dal 1994 presso la Casa di Cura Pineta del Carso approfondendo negli anni le diverse tematiche riabilitative: cardio-pneumologica e neuromotoria. Dal 2008 è responsabile del reparto Disabili Gravi; consegue tra il 2009 e il 2012 il master sulla gestione del paziente con grave cerebrolesione acquisita e quello biennale in executive management sanitario.
Ha partecipato in qualità di esperta ai tavoli di lavoro regionali su “ Stati vegetativi” e sulla realizzazione della rete per le gravi cerebrolesioni acquisite e al gruppo di lavoro nazionale coordinato da FNOMCEO sul “Progetto osservazionale sugli stati vegetativi”.
Docente per il personale sanitario e relatrice in svariati convegni sulle tematiche della gestione clinico-assistenziale e le problematiche sociosanitarie della persona con grave disabilità.
QUI IL VIDEO DELL’INTERVENTO – (disponibile dal 15.4.2014)
Le gravi cerebro lesioni acquisite (GCA) rappresentano una sindrome clinica caratterizzata da una grave compromissione clinico-funzionale sia senso-motoria sia cognitivo-comportamentale, che si associa ad un forte coinvolgimento del nucleo familiare-laddove presente-.
Le conseguenze di questa patologia si traducono in un brusco e drammatico cambiamento delle condizioni di vita del paziente e della sua famiglia e in un immediato e consistente bisogno di risorse gestionali, indispensabili per supportare l’intensità del carico terapeutico-assistenziale che caratterizza il percorso riabilitativo del paziente, per sostenere l’impatto emozionale dei familiari e per garantire al paziente stesso una dignitosa qualità di vita.
Vorrei soffermarmi proprio sul concetto di “dignitosa qualità di vita” precisando come uno dei compiti del personale sanitario sia quello di garantire strumenti di salvaguardia a queste persone che manifestano una profonda vulnerabilità su tutti i livelli esistenziali: sociale, clinica, emotiva, comportamentale e relazionale.
Strumenti di salvaguardia per queste persone divengono allora, oltre ai trattamenti farmacologici e ai differenti presidi tecnologici che supportano le funzioni vitali, la sintonia e la sinergia del gruppo di lavoro e le qualità umane che attraverso il gruppo si manifestano.
Pertanto uno dei compiti del medico che coordina il team multidisciplinare operante attorno a queste persone è anche quello di stimolare e motivare le varie figure professionali ad affinare le capacità di ascolto, di osservazione acritica e di sensibilità per sintonizzarsi su un “diverso” livello comunicativo con la persona e per favorire lo scambio nella relazione terapeutica.
Il lavoro con persone affette da gravissima disabilità pone quotidianamente al sanitario una serie di sfide di carattere etico, clinico, riabilitativo e sociale e innesca nel team di lavoro una serie di dinamiche, di domande, di curiosità che a loro volta stimolano il singolo a profonde riflessioni individuali.
Un’altra peculiarità di questo lavoro è la silenziosa ma percettibile sollecitazione alla solidarietà e alla comunicazione nel gruppo e all’espansione continua del gruppo stesso con l’inclusione dei familiari, delle figure sanitarie territoriali, dell’amministratore di sostegno.
Quest’ultima figura, sia esso un familiare, un amico o un legale rappresenta una risorsa insostituibile nella rete umana che si crea attorno al grave disabile proprio per la sua funzione di tutela non solo degli aspetti sanitari ma anche amministrativo-relazionali.
Nella relazione esposta al convegno verranno approfondite due storie che hanno in comune un vissuto premorboso di emarginazione, degrado e disagio sociale.
In entrambe le storie di vita di queste persone è presente un passato di tossicodipendenza, abusi, rete familiare e sociale pesantemente compromessa o inesistente, storie di persone “confinate” in realtà intessute di difficoltà, violenza , sofferenza.
Chiamerò il primo caso “la storia di D”: all’epoca dei fatti aveva 36 anni e una severa disabilità, esito di grave trauma cranico.
Il suo amministratore di sostegno era un legale in quanto i suoi familiari e la rete amicale più che una risorsa rappresentavano una minaccia.
Questo legale era però difficilmente raggiungibile, mancava alle riunioni di rete con i servizi territoriali e non riusciva a gestire le modeste risorse economiche della persona : tutto ciò si ripercuoteva pesantemente sulla storia di D. che sembrava dovesse venir istituzionalizzato a vita.
Tale situazione ha avuto una svolta radicale nel momento in cui il giudice tutelare è stato informato di tali difficoltà e ha nominato un altro amministratore di sostegno.
Quest’ultimo ha immediatamente dimostrato un concreto atteggiamento proattivo collaborando sinergicamente con l’équipe di cura e permettendo di dimettere D. presso un suo domicilio affiancato da badanti , restituendo in tal modo dignità e valore alla persona attraverso il riconoscimento di un diritto fondamentale.
La storia di A. nasce all’ombra di un profondo disagio sociale vissuto già da anni. Questa persona , seguita dal CSM e dal SERT, e conosciuta dai servizi sociali comunali, fa uso di droghe, non lavora, non ha una dimora definita, si è allontanata dalla famiglia.
Alcuni mesi fa, in seguito ad un tentamen con una miscela di alcool, droga e farmaci viene trovata in arresto cardiorespiratorio e dopo le manovre rianimatorie esita in uno stato vegetativo post anossico.
Rimane in ospedale otto mesi e poi viene accolta nel reparto Disabili gravi; solo dopo una riunione con i servizi territoriali si procede alla richiesta di nomina dell’amministratore di sostegno.
Perché citare questa storia? Perché ritengo che uno dei tasselli nel puzzle variopinto della dignità della persona sia la sua dimensione sociale e tralasciare di considerare questo aspetto e non procedere di fatto già nella fase post acuta ospedaliera alla richiesta di nomina rappresenti il negare un diritto fondamentale della persona e una grave mancanza da parte degli operatori sociosanitari.
Ho incontrato e sperimentato nella mia esperienza professionale una serie di “confini”: culturali, cognitivi, emotivi e fisici e ognuna di queste esperienze mi ha invitata o molte volte brutalmente spinta a mettermi in gioco, a pormi domande difficili, ad attivarmi per cercare risposte o dimensioni di realtà in cui condividere con altri le mie perplessità, curiosità e la mia ignoranza.
Da sei anni a questa parte lavoro con i gravi e gravissimi disabili: è un lavoro impegnativo, ma più passa il tempo , con incontri,sulla mia strada professionale, di persone e di storie altrettanto penose, più sperimento una dimensione amplificata del concetto di lavoro che sfuma o meglio “sconfina” nell’esperienza del “servizio”.
Sperimentare il servizio significa acquisire la consapevolezza di poter aiutare e trasferire la mia esperienza e conoscenza all’altro senza alcuna aspettativa, lasciando che sia la qualità e l’intenzione dell’agire a produrre una risposta.