La complessità dell’ambiente in cui ci muoviamo.
Si trovano ad operare insieme settori dello Stato che normalmente non dialogano tra loro, e che quando entrano in contatto, lo fanno in modo un po’ diffidente. Ciò accade per lo più in evenienze patologiche (in un’accezione giuridica, più che medica). Queste due amministrazioni sono quella della giustizia e quella socio/sanitaria. Non ha importanza per il momento distinguere tra assistenza sociale e sanitaria, e quindi usiamo questa particolare terminologia, altrimenti inesatta.
Fermandosi solo al binomio giudice tutelare/amministrazione socio-sanitaria, la struttura dei sistemi è profondamente diversa.
La loro articolazione territoriale per il vero è sostanzialmente omogenea: le province per lo più (ma non senza eccezioni) si rapportano ad un tribunale e ad un servizio sanitario: ma la tipologia organizzativa del tutto difforme.
Il giudice tutelare come persona fisica (uno o più) è il riferimento unico di tutte le istanze di tutela dei soggetti deboli (tutela, curatela, amministrazione di sostegno); la sua struttura di supporto, la cancelleria, lo assiste dal momento della ricezione del ricorso e per tutta la durata dell’AdS, che nella normalità dei casi coincide con la permanenza in vita del beneficiario.
Ogni istanza, richiesta, provvedimento, transita in arrivo, viene smistata, arriva al giudice e da questo, sotto forma di provvedimento, deve essere comunicata, attraverso la cancelleria: ogni passo vede coinvolto il servizio di cancelleria e/o il giudice (fisicamente, nel Tribunale di Trieste: 3 giudici, una unità di personale di cancelleria, qualche volontario).
Il sistema socio-sanitario ha invece caratteristiche di diffusività molto maggiori, e si articola in diverse strutture, non necessariamente verticistiche; il suo bacino di utenza, come quello della giustizia è quello dell’intera popolazione. A fronte di questo enorme bacino, e di una struttura decisamente complessa, il destinatario della sua attività, quanto alla materia dell’AdS, è l’Ufficio Giudiziario, come sopra descritto.
Bene. Dove voglio arrivare? O meglio, da dove voglio partire?
In questo contesto temporale e economico tutte le risorse sono limitate. Lo sappiamo e lo viviamo, oggi più drammaticamente di ieri. Ma oltre ad una limitatezza assoluta, sulla quale non vi trattengo, tanto ci pensano ogni giorno le notizie di tv, radio e giornali, dobbiamo considerare anche un altro tipo di limitatezza, che potremo definire relazionale.
La limitatezza assoluta è quella che non ci consente di erogare più di un certo numero di prestazioni, di assicurare un certo numero di posti letto, e che ci impone budget e rinunzie. I motivi sono tanti, per lo più comuni a tutte le amministrazioni, ed in arte tipiche di alcune di esse.
Invece, per limitatezza relazionale intendo quella che ci impone scelte organizzative che siano in funzione anche del nostro interlocutore. Quand’anche il mio sistema di appartenenza possa essere in grado di elaborare certi piani di intervento, o sviluppare certi volumi produttivi o erogare certi servizi, si può porre in concreto l’esigenza di una verifica – auspicabilmente preventiva – del funzionamento delle realtà cointeressate alla nostra organizzazione.
Un esempio banale.
Se come operatore portuale posso fare arrivare a Trieste 10 navi porta-container al giorno, ma non ci sono infrastrutture stradali o ferroviarie idonee a fare transitare le merci, io vedrò accatastarsi i container in porto o i TIR in strada, creando allarme tra operatori e cittadini, aumentando i ritmi lavorativi nel tentativo di smaltire il lavoro, e con risultati sicuramente peggiori in termini di qualità della prestazione. In ultima analisi, pur ampia avendo capacità in ingresso, dovrò scegliere se rinunziare ai traffici in arrivo, o infischiarmene, consapevole dell’impossibilità di invertire la tendenza.
Il primo corno dell’alternativa, nel nostro caso non è ovviamente percorribile: in nessuno dei due sistemi, quello socio-sanitario e quello della giustizia, è possibile tagliare la domanda in ingresso. Lo sappiamo bene: siamo servizi “a perdere”. Quei servizi di cui lo Stato, anche in momenti emergenziali come questo, non può liberarsi se non tradendo la sua intima funzione. Discorso a parte è che qualsiasi taglio, o meglio, qualsiasi ritardo nel mantenere i livelli (non dico aumentarli) è un attentato a questi stessi valori primari della salute e del diritto alla giustizia.
Ma chiudiamo qui altrimenti il discorso si farebbe lungo e complesso.
Rimane il secondo ramo dell’alternativa. Forse siamo costretti alla deriva? Ad accettare che i tempi e la qualità del servizio peggiorino sempre più, fino al collasso, che speriamo ci veda già in pensione (e comunque, facendo corna, non bisognosi né di interventi giudiziari nè di cure)?
Non necessariamente.
Ritornano in ballo le scelte organizzative di cui parlavamo, e cioè quelle che non sono destinate a rimanere solo all’interno del nostro sistema di appartenenza, ma che hanno delle ricadute anche su altri sistemi connesse, quelle scelte organizzative relazionali, funzionali cioè alle esigenze del nostro interlocutore.
Ecco perché, quindi, realtà complesse come le nostre, o convergenze di obiettivi (come accade nell’amministrazione di sostegno) impongono che qualsiasi soluzione gestionale debba essere ideata, studiata, sperimentata ed infine attuata in modo il più possibile condiviso, o quanto meno non in modo atomistico.
Un esempio di una scelta strategicamente sbagliata, perché pensata in una sola dimensione ed in un unico contesto, invece che in modo relazionale, ve lo illustro subito: si tratta della scelta di procurare a tappeto, da parte delle aziende sanitarie, il consenso alla privacy di ogni utente del sistema sanitario.
Stanno iniziando ad arrivare agli sportelli delle organizzazioni volontaristiche e poi in Tribunale, richieste di nomina di amministratore di sostegno per prestare il consenso alla privacy, indotte dal personale sanitario in base ad una interpretazione – tutta da saggiare – del provvedimento del gennaio 2013 del Garante.
Il provvedimento reca:
a) rilevata l’illiceità del trattamento effettuato dall’AOUTS con riferimento alla mancanza di non aver reso l’informativa e non aver acquisito il consenso dell’interessato in relazione al trattamento effettuato tramite il dossier sanitario aziendale (artt. 13, 23 e 76 e ss. del Codice), vieta, ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. c) e 154, comma 1, lett. d) del Codice, all’Azienda ospedaliero universitaria Ospedali Riuniti di Trieste di effettuare ulteriori trattamenti di dati personali dei pazienti mediante lo strumento del dossier sanitario aziendale;
b) ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b) e 154, comma 1, lett. c) del Codice, prescrive all’Azienda ospedaliero universitaria Ospedali Riuniti di Trieste quali misure necessarie:
1. che i documenti sanitari attualmente trattati attraverso lo strumento del dossier sanitario restino disponibili solo al professionista o alla struttura interna al titolare che li ha redatti (es. informazioni relative a un ricovero utilizzabili dal reparto di degenza) e per eventuali conservazioni per obbligo di legge (art. 22, comma 5, del Codice), adottando idonei accorgimenti anche tecnici affinché i medesimi documenti sanitari non siano più condivisi attraverso lo strumento del dossier sanitario con altri professionisti che curino l’interessato presso altri reparti, fino al momento in cui lo stesso esprima uno specifico consenso (artt. 13 e 76 e ss. del Codice);
2. di acquisire uno specifico consenso informato dell’interessato per utilizzare -attraverso lo strumento del dossier sanitario anche le informazioni sanitarie relative a eventi clinici pregressi ovvero occorsi all’interessato in periodi precedenti rispetto al momento in cui lo stesso acconsente al trattamento dei suoi dati sanitari attraverso lo strumento del dossier sanitario (gestione del pregresso). Tale consenso può essere raccolto anche unitamente a quello prescritto nel precedente punto sub 1;
3. di mettere in atto specifici accorgimenti –anche eventualmente avvalendosi del supporto tecnico fornito da INSIEL S.P.A.- che consentano ai soli professionisti sanitari che hanno in quel momento in cura il paziente (che abbia già manifestato un consenso informato alla costituzione del dossier) di accedere al suo dossier sanitario per il tempo in cui si articola il percorso di cura. Tali accorgimenti devono essere adottati entro 6 mesi dalla data di ricezione del predetto provvedimento;
4. di mettere in atto specifici accorgimenti -anche eventualmente avvalendosi del supporto tecnico fornito da INSIEL S.P.A.- che consentano all’interessato di poter esprimere la volontà di oscurare nel proprio dossier sanitario singoli eventi clinici anche relativi al pregresso. Di tale diritto deve essere fatta menzione nell’informativa resa ai sensi dell’art. 13 del Codice. Tali accorgimenti devono essere messi in atto entro 3 mesi dalla data di ricezione del predetto provvedimento.
c) ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. b) e 154, comma 1, lett. c) del Codice, prescrive quale misura necessaria all’Azienda per i servizi sanitari n. 1, all’Azienda per i servizi sanitari n. 2, all’Azienda per i servizi sanitari n. 3, all’Azienda per i servizi sanitari n. 4, all’Azienda per i servizi sanitari n. 5, all’Azienda per i servizi sanitari n. 6, all’Azienda ospedaliero universitaria S. Maria della Misericordia di Udine, all’Azienda ospedaliera S. Maria degli Angeli di Pordenone, all’IRCCS CRO di Aviano, all’IRCCS Burlo Garofalo di Trieste di rendere conforme -anche eventualmente avvalendosi del supporto tecnico fornito da INSIEL S.P.A.- il trattamento dei dati personali effettuato attraverso gli applicativi in uso presso gli stessi alle prescrizioni contenute nella lettera b) del presente provvedimento entro i termini indicati nella medesima lettera.
d) ai sensi dell’art. 157 del Codice, prescrive all’Azienda ospedaliero universitaria Ospedali Riuniti di Trieste, all’Azienda per i servizi sanitari n. 1, all’Azienda per i servizi sanitari n. 2, all’Azienda per i servizi sanitari n. 3, all’Azienda per i servizi sanitari n. 4, all’Azienda per i servizi sanitari n. 5, all’Azienda per i servizi sanitari n. 6, all’Azienda ospedaliero universitaria S. Maria della Misericordia di Udine, all’Azienda ospedaliera S. Maria degli Angeli di Pordenone, all’IRCCS CRO di Aviano, all’IRCCS Burlo Garofalo di Trieste di dare riscontro a questa Autorità dell’avvenuta adozione delle prescrizioni di cui alle lettere b) e c) del presente provvedimento contestualmente alla loro adozione.
Mi domando, e vi domando: ma quando si è ritenuto di avviare a tappeto l’acquisizione del consenso, ci si è posti, solo lontanamente, l’idea di verificare le conseguenze a valle della scelta?
Io non voglio entrare nel merito della stessa, perché richiederebbe altro incontro ed altri dibattiti, ma voglio con forza rimarcare che la limitatezza relazionale delle risorse imponeva una riflessione congiunta. Che è clamorosamente mancata.
Le conseguenze delle nostre scelte, quand’anche scaricate su altre strutture organizzative, possono ritornare indietro su di noi, in termini negativi, ed a diversi livelli. Come struttura, come rapporto con gli utenti, e come utente stesso. Se provochiamo la disfunzione di altra struttura, prima o poi ne subiremo un danno, diretto o riflesso.
Se non vogliamo essere virtuosi, almeno siamo “egoisti” (amministrativamente parlando) in modo avveduto.
Non era questo l’argomento del mio intervento, ma solo un pretesto: se però è chiaro l’esempio, beh allora ho già assolto il compito che mi era stato assegnato, perché ho giustificato prima quello che dirò a breve.
Torniamo alla nostra Amministrazione di sostegno.
La norma dell’art- 406 cod. civ. ci dice che:
I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona,
se sono a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno,
sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero.
Chi sono i responsabili? Ve lo ha già detto il dott. Bergamini, ma voglio solo dire che la legge non distingue tra “servizi sanitari e sociali pubblici e privati”; né il concetto è riferibile soltanto ai soggetti “apicali” di strutture di cura ed assistenza. Secondo molti, sotteso all’espressione c’è un “principio di non burocratizzazione e di semplificazione del procedimento, che sarebbe invece contrastato da una lettura “verticistica” della disposizione”[1]. Inoltre “si parla di servizi (evidenziando l’elemento funzionale) e non di struttura (che evidenzierebbe l’elemento organizzativo); e poi si collega il “servizio” al “diretto” impegno nella cura e nell’assistenza della persona[2]”.
È stato correttamente suggerito in dottrina che la norma non distingue tra “un servizio svolto in regime di autonomia, di dipendenza o di convenzione (come ad es. il servizio dei medici di medicina generale – MMG, i cosiddetti medici di famiglia)”. Si è quindi concluso che “Nell’ambito del servizio sanitario pubblico o privato il responsabile del servizio va indicato in concreto in colui che ha responsabilità di indirizzo della terapia/assistenza specifica che gli viene richiesta a favore di uno o più beneficiari”.
Ne viene fatto derivare che gli MMG sono – come usiamo dire noi giuristi – legittimati attivamente alla proposizione di un ricorso per la nomina di amministratore di sostegno e, badiamo bene, questo è un dovere giuridico, nei limiti in cui ne ravvisino quella opportunità di cui parla la norma.
Del resto sarebbe ben strano che chi più di altri conosce la persona debole, ne ha visto evolvere le condizioni, né ha raccolto le confidenze, ne conosce la storia personale, sia poi privato dell’alta responsabilità, in termini morali prima ancora che giuridici, di intervenire a suo sostegno.
Ed ecco allora la conclusione del mio ragionamento.
Quando e come intervenire.
Quando. Non facciamo giri di parole: le volte in cui quello che sta accadendo ad un paziente non vorremo che accadesse a noi o ad un nostro caro. Quando concretamente comprendiamo che tra lui o lei ed il mondo esterno si sta aprendo quello iato che non viene colmato da familiari o da un ambiente protettivo preesistente all’evento,
MA
da badanti, “amici” o vicini mai visti prima d’ora, lontanissimi parenti di cui non si aveva traccia.
“Essere a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura di una AdS” non vuol dire vedersi cadere sulla testa la bottiglia del naufrago, circostanza dolorosa ed inequivoca, ma piuttosto eccezionale. Significa invece sapere cogliere nel nostro interlocutore quelle debolezze che possono essere indice di una richiesta di aiuto, sospirata, magari affidata ad uno sguardo o ad un silenzio, o ad un sorriso forzato in presenza dell’occasionale accompagnatore. Altro non è a dire. Intelligenti pauca.
Come. Coordinandosi eventualmente con l’attività di terze persone diversamente qualificate (operatori sanitari, assistenti sociali) che possano se del caso confermare le nostre intuizioni, ed eventualmente filtrare o meglio indirizzare le nostre iniziative, innome di quella relazionalità di cui parlavamo prima.
In ultima analisi, se la nostra convinzione permane e riteniamo che vi sia una inerzia, non necessariamente volontaria, dei nostri interlocutori, il come intervenire significa presentare il ricorso per la nomina di amministratore di sostegno.
Non facciamo nulla di male, non mettiamo bollini blu o marchi indelebili. Solo, sottolineo e chiedo di cogliere l’ossimoro, solo faccio arrivare in porto un’altra nave, e ne devo essere consapevole. Chiedo ai sistemi coinvolti un ulteriore sforzo, in aggiunta o a detrimento di altre situazioni che ignoro e potrebbero essere ben più gravi. E quindi lo devo fare nel modo più condiviso possibile.
Ed allora sia il quando che il come meritano qualche altra riflessione.
La cura della persona, la nobile missione alla quale siete chiamati, vive oggi in dimensioni nuove, a volte difficili da cogliere.
Potremo discutere di consenso informato, ad esempio, per vedere quanto sia difficile applicare in concreto, nelle scelte professionali quotidiane, le nuove regole giuridiche e disciplinari. Il passaggio dal regime del cd. privilegio terapeutico a quello dell’alleanza terapeutica per molti medici è stato un trauma. È difficile ricordare e metabolizzare che davanti a voi medici non siede più un “paziente” ma un soggetto che deve essere reso partecipe, deve valutare (dall’indefettibilmente basso grado di comprensione tecnica), e poi deve liberamente scegliere se accettare le vostra indicazione terapeutica.
È per questo che alla diffusione del concetto di “consenso informato” ha fatto seguito una sua “banalizzazione. Quella formula che era stata ideata per esprimere il primato dell’autonomia del soggetto della cura rispetto al tradizionale paternalismo medico “ si traduce sovente, sul fronte applicativo, in mero adempimento burocratico, nell’apposizione frettolosa e distratta di una firma”[3].
Bene, questo stesso atteggiamento di passività di fronte al nuovo che avanza, non possiamo mantenerlo anche di fronte all’AdS.
Oltre ad indagare sulle malattie e sulle cure, dobbiamo indagare anche sulle persone che ci troviamo di fronte.
Non pensate che io non mi renda conto del peso della routine, delle esigenze organizzative degli ambulatori, dei tempi ristretti e del numero enorme di utenti.
Però spero conveniate con me che nulla di tutto questo può giustificare atteggiamenti paternalistici omissivi.
Tutti noi possiamo essere vittime di inganni o raggiri, e magari trovarci di fronte a situazioni nelle quali ci si chiede qualcosa di “innocente” per fini che in realtà sono tutt’altro che compassionevoli.
Parlo delle certificazioni di capacità di intendere e volere, che magari ci vengono chieste per certe finalità, ed invece escono dagli studi medici ed entrano in quelli notarili. Oppure parlo delle prescrizioni richieste “sulla fiducia” dalle badanti o da quei soggetti ai quali mi riferivo poco sopra, o lasciate in segreteria telefonica.
Stiamo parlando tra di noi, e sono cose che riguarderanno sicuramente gli altri e non me direttamente; e so che questo discorso non mi rende popolare. Ma vi devo dire che non mi interessa la comprensione di coloro che si sentono chiamati in ballo in prima persona.
Si tratterà forse di uno, o due di voi: ma se anche per loro il messaggio è arrivato, forte e chiaro, sono ben contento di essere diventato loro antipatico, e spero che si faranno più consapevolmente carico delle conseguenze delle loro scelte routinarie.
In questi casi di motivato allarme, quindi, occorre agire in modo condiviso, attivare i servizi presenti sul territorio se c’è il tempo o non si è del tutto convinti, monitorare l’evoluzione della nostra segnalazione, dialogare con i nostri interlocutori e insieme prendere una scelta.
Il frutto finale non dovrà essere una mera, ipotetica segnalazione, tutta da verificare e da istruire, intasando quel porto di mare che è il nostro ufficio giudiziario: dovrà essere il risultato di un lavoro sinergico, di un contributo eventualmente a più voci.
Dobbiamo fornire al giudice la motivata esposizione di tutte le conoscenze raccolte con riguardo al soggetto debole, al suo contesto familiare o amicale, al suo passato, ai suoi problemi psicofisici e relazionali, alle sue esigenze immediate e meno prossime.
Se questo sarà il frutto dei vostri sforzi, avrete agito non solo a beneficio del soggetto debole, ma anche in modo intelligente nei confronti dei sistemi di riferimento, in nome di quella utilità relazionale di cui abbiamo discorso.
[1] Così Rumi T., L’amministratore di sostegno: una tutela in ambito sanitario, su http://www.altalex.com/index.php?idnot=48779 [2] Rumi T., L’amministratore di sostegno, cit. [3] Si tratta dell’espressione tratta da Brignone C., Autodeterminazione e informazione, salute e consenso informato: tra strumenti normativi e prassi giurisprudenziali, reperibile anche su Internet. Molto spesso nella parte finale del lavoro, si è fatto riferimento a concetti, anche tralatiziamente riportati, dalla brillante dottrina.