La Corte di Cassazione dice NO, con una doverosa distinzione (Cassazione civile, sez. trib., 13/07/2020, n. 14846)
Nel caso portato all’attenzione della Corte, viene nuovamente messo in luce il problema dell’imponibilità ai fini IVA dell’indennità prevista dal combinato disposto degli artt. 379 e 411 c.c. in favore dell’amministratore di sostegno.
In specie, l’Avv. C.M., amministratore di sostegno, aveva fatturato l’indennità liquidata dal Giudice Tutelare, salvo poi richiedere il rimborso della relativa IVA corrisposta, ricevendo diniego dall’Agenzia delle entrate. La professionista aveva dunque impugnato il diniego innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Trieste che accoglieva il ricorso. L’esito è stato confermato anche dalla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia-Giulia, che rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima proponeva quindi ricorso in Cassazione denunciando la violazione o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 1,3 e 13, in relazione agli artt. 379 e 411 c.c., sostenendo che le somme ricevute dall’amministratore di sostegno si pongono in relazione sinallagmatica con la prestazione resa.
La Suprema Corte rigetta il ricorso emanando il seguente principio di diritto: «in tema di iva, posto che l’attività svolta all’amministratore di sostegno è precipuamente volta alla cura della persona, l’amministrazione del patrimonio non configura, di norma, attività economica e, quindi, imponibile, a meno che non sia volta a ricavare introiti con carattere di stabilità o, comunque, sia espletata a titolo oneroso».
Per pervenire a siffatta conclusione la Corte si sofferma, anzitutto, su cosa debba intendersi per attività economica rilevante ai sensi degli artt. 1 ss. del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e dell’art. 9 della Direttiva n. 2006/112/CE al fine di verificare se la funzione di tutela della persona – costituente il fondamento dell’istituto dell’amministrazione di sostegno – possa dirsi compatibile o meno con un’attività imponibile ai fini IVA. In quest’ottica, secondo la Corte, non è dirimente la connotazione di ufficio dell’amministratore di sostegno, poiché non tutti gli uffici sono gratuiti. D’altronde, ricorda la Corte, è anche vero che il legislatore ha espressamente previsto con il combinato disposto degli artt. 379 e 411 c.c. che l’ufficio dell’amministratore di sostegno si caratterizzi per la sua gratuità, salvo il riconoscimento, da parte del Giudice Tutelare, di un’equa indennità.
Posti questi principi, la Cassazione passa ad affrontare il fulcro del tema, partendo dal presupposto che l’indennità possa essere conferita dal giudice all’amministratore di sostegno soltanto nel caso di «oneri derivanti dall’amministrazione di un patrimonio, in considerazione delle relative difficoltà». A riguardo – prendendo posizione sul punto e richiamando la definizione data recentemente dalla Corte di Giustizia in merito al concetto di “attività economica” – il collegio evidenzia espressamente che una tale attività di amministrazione, per come configurata dal legislatore, «non è indirizzata alla produzione di reddito, e, quindi, non è configurata come economica, ossia svolta a titolo oneroso».
Invero, già in precedenza, a livello giurisprudenziale, si era ritenuto che l’indennità prevista dall’art. 379 c.c., non avendo carattere retributivo, andasse intesa come rimborso delle spese sostenute e dei mancati guadagni dell’amministratore in conseguenza del tempo dedicato all’adempimento del suo incarico a discapito della propria attività lavorativa e dei propri interessi. Difatti, secondo quanto ritenuto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 1073/1988 – relativa all’istituto della tutela – l’equa indennità «non ha natura retributiva, ma serve a compensare gli oneri e le spese non facilmente documentabili da cui è gravato il tutore a cagione dell’attività di amministrazione del patrimonio del pupillo, alla quale l’ufficio tutelare lo obbliga personalmente senza possibilità di nominare sostituti».
Ciononostante, si continuavano a registrare orientamenti discordanti sul punto, complice anche la Risoluzione n. 2/2012 dell’Agenzia delle Entrate che configura l’indennità ex art. 379 c.c. come un compenso per lo svolgimento di un’attività professionale, inquadrabile quale reddito di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53 del TUIR e rilevante ai fini IVA ai sensi degli art. 3 e 5 del DPR 2 n. 633/1972. In altri termini, secondo l’Agenzia delle Entrate, se il Giudice Tutelare sceglie un avvocato quale amministratore di sostegno, la relativa indennità – anche se determinata in via equitativa e su base forfetaria – costituisce, sotto il profilo dell’applicazione della normativa tributaria, un compenso per lo svolgimento di un’attività professionale e, pertanto, deve essere sia tassato ai fini IRPEF sia soggetto a IVA.
Ebbene, nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si discosta – nuovamente – da tale posizione affermando espressamente che le peculiarità caratterizzanti l’indennità eventualmente riconosciuta in favore dell’amministrazione di sostegno, tolgono alla stessa la funzione di corrispettivo, inteso quale effettivo controvalore del servizio fornito. Difatti, richiamando recente giurisprudenza della Corte di giustizia (Corte giust. 22 febbraio 2018, causa C-182-17, Nagyszenas Telepulesszolgeltatesi Nonprofit Kft, punto 33) la Suprema Corte afferma che «l’attività dell’amministratore di sostegno non è configurata come destinata al ricavo di introiti aventi carattere di stabilità» né è possibile individuare tra amministratore di sostegno e beneficiario «un rapporto nel corso del quale siano scambiate prestazioni reciproche» vista l’eventualità dell’assegnazione dell’indennità e l’ampia discrezionalità riconosciuta al giudice riguardo alla quantificazione della stessa, fondandosi su di un principio di equità.
Invece, sempre secondo la Corte, si deve pervenire a una diversa conclusione allorquando l’attività di gestione del patrimonio del beneficiario dell’amministrazione «risulti in concreto volta a ricavare introiti con carattere di stabilità o, comunque, espletata da un professionista a titolo oneroso, ossia per la produzione di reddito». Ciò parrebbe a dire che, nel caso in cui l’amministratore di sostegno sia un professionista – un avvocato nel caso sottoposto all’attenzione della Corte – occorre distinguere fra le attività prestate quale amministratore di sostegno per la cura del beneficiario e quelle prestate in quanto professionista e, dunque, quasi quale soggetto esterno al rapporto amministratore-beneficiario.
Tale interpretazione era già stata abbracciata dalla giurisprudenza di merito. Nel 2012, infatti, il Tribunale di Trieste aveva tentato di introdurre, per l’ipotesi in cui l’incarico di amministrazione di sostegno fosse stato attribuito a un professionista, una distinzione fra:
- i compiti che egli svolge avvalendosi delle proprie specifiche competenze, per i quali sarebbe ipotizzabile un’indennità di tipo retributivo e quindi tassabile; e
- i compiti che invece il professionista svolge a prescindere dalla propria qualifica, per i quali l’indennità avrebbe natura meramente compensativa e quindi non sarebbe tassabile.
Tale orientamento era stato poi seguito anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Trieste che, con sentenza n. 283/2014 – foriera della decisione della Suprema Corte in commento – afferma che «l’indennità non perde la sua natura indifferentemente dal soggetto che la percepisce, sia esso un parente, un conoscente, un professionista, salvo che non vengano attribuiti compiti specificamente tipici della professione di appartenenza dell’amministratore di sostegno, rappresentando prestazioni professionali, e come tali liquidati, nel rispetto della legge». Tale passaggio è da considerarsi di estrema importanza giacché esplicita il ragionamento posto alla base dell’orientamento stesso: l’attività professionale dell’avvocato-amministratore andrebbe così considerata attività a sé stante, rispetto a quella prettamente relativa all’amministrazione di sostegno, in quanto se amministratore fosse stato un parente per l’espletamento di una qualsiasi attività legale ci si sarebbe dovuti rivolgere a un professionista, con pagamento della relativa parcella. È evidente, allora, che tale attività di natura legale prestata direttamente dall’amministratore di sostegno, per il fatto di essere egli stesso avvocato, non possa essere semplicemente indennizzata a titolo di mancato guadagno o rimborso delle spese sostenute, essendo pienamente qualificabile quale prestazione professionale.
Conseguentemente, si deve ritenere che anche nella sentenza in commento la Suprema Corte, dopo aver ribadito la “regola” secondo cui l’attività prestata dall’amministratore di sostegno, in quanto tale, non costituisce attività di natura economica, abbia altresì riproposto l’“eccezione” che si configura quando l’amministratore offra ed espleti in concreto per il beneficiario delle prestazioni di tipo professionale – come tali imponibili – in ragione dell’attività lavorativa da lui personalmente svolta, il compimento della quale, in favore del beneficiario, richiederebbe comunque di rivolgersi a un professionista.
A fronte di tale orientamento, che risolve la problematica sul piano teorico, sono auspicabili altresì due cambiamenti pratici. Anzitutto, perché tale differenziazione si realizzi, è necessario che lo stesso amministratore di sostegno, che sia anche avvocato e che si trovi nella situazione descritta, distingua, nei rendiconti di ciascun beneficiario, le attività di “cura” prestate in loro favore, da quelle prestate in veste di avvocato, in modo da rendere più agevole la distinzione fra attività imponibili e non. In secondo luogo, però, perché tale orientamento – impeccabile da un punto di vista logico – si concretizzi nella realtà, sarebbe altresì auspicabile che i Giudici Tutelari stessi esercitino i poteri di vaglio loro attribuiti compiendo un ulteriore controllo qualitativo dell’attività prestata dall’amministratore. In altri termini, è auspicabile che i Giudici Tutelari accertino, nell’interesse del beneficiario, la distinzione fra le due categorie di attività svolte dal professionista in modo da approvare (o non approvare) e quantificare separatamente la somma liquidabile a titolo di indennità ex art. 379 c.c., non imponibile, dalle somme dovute per l’attività professionale svolta, e pertanto soggette a IVA. Detta prassi, oltre ad evitare al beneficiario inutili esborsi per imposte non dovute (IVA e CPA), permetterebbe all’Agenzia delle Entrate, in eventuale sede di accertamento, di avere un provvedimento giudiziale capace di definire a priori la natura delle somme eventualmente liquidate.
Avv. Matteo Morgia