Il quesito difficilmente può trovare una risposta univoca ed immune da critiche.
Provo a rispondere dunque da amministratore di sostegno che, in più occasioni, si è trovato davanti al dilemma di scegliere fra una domiciliarità, spesso ostacolata dalla carenza di adeguati strumenti a sostegno del reddito, ed il ricovero in struttura che trova sovente una contribuzione integrativa a carico dei Comuni a sostegno della retta posta a carico dell’ospite.
Ritengo sia anzitutto essenziale operare una netta distinzione fra l’esigenza di ricovero in struttura Polifunzionale rispetto ad un RSA o Struttura Residenziale Protetta.
La prima solitamente consente l’accesso a persone con Breve Indice di Non Autosufficienza (BINA) e Mini Mental State Examination (MMSE) tali da escludere un’esigenza assistenziale prevalentemente a carattere sanitario; la RSA o la Struttura protetta invece presuppongono una non autosufficienza, e/o compromissione cognitiva, di grado moderato grave, tali comunque da consentire di prescindere dal dato squisitamente sociale che induce alla scelta del ricovero (anziano privo di adeguata rete sociale di protezione) in favore di esigenze prettamente sanitarie.
La premessa, a mio avviso, consente di sgomberare il capo da alcuni dubbi: difficilmente dovrebbe essere ammessa l’ipotesi di consenso dell’amministratore di sostegno, pur autorizzato, al ricovero di un beneficiario in struttura polifunzionale.
L’affermazione, pur temperata da pareri certo più autorevoli del mio, non può che muovere dal dato letterale dell’art. 32 della Costituzione il quale, quand’anche si voglia leggere in chiave di riserva solo relativa di legge, demanda comunque a quest’ultima la disciplina di quei casi di limitazione della libertà personale per esigenze di carattere SANITARIO.
Di talché il difetto di un requisito sanitario, come elemento principale dell’esigenza di ricovero in struttura, farebbe venir meno l’ipotesi di poter prestare un consenso in vece del beneficiario restio, prima facie, al ricovero e comprensibilmente aggrappato alle mura domestiche.
Il passaggio successivo è necessariamente riservato alla ricerca di quella LEGGE che, viceversa, in presenza di esigenze di tutela della salute, dovrebbe poter permettere all’amministratore di sostegno di ricoverare in struttura (a questo punto RSA o Protetta) il beneficiario incapace, per malattia fisica o psichica, di prestare un dissenso valido.
Il riferimento è alla legge n.180/78 che regola, fra gli altri, i trattamenti sanitari a carattere obbligatorio ed appare pacificamente satisfattiva della menzionata riserva costituzionale dell’art. 32. La norma, come noto, prevede un iter formativo e confermativo del trattamento che, in via meramente convenzionale più che empirica, è garanzia del “rispetto della persona umana”.
Ad ogni buon conto se di scienza vogliamo trattare, è pressoché pacifico che gli interventi coercitivi in campo sanitario (in particolare in contenzione) producono ritorni devastanti di effetto contrario e non possiamo neppure prescindere dal fatto che la limitazione della libertà (ancorché frutto di dissenso viziato) deve essere intesa come ultima ratio possibile, successiva ad un approccio di dialogo e di estenuante, perseverante e reiterata persuasione.
La maggior critica che si potrebbe muovere all’utilizzo del potere giurisdizionale del Giudice Tutelare diretto ad autorizzare l’AdS a prestare il consenso al ricovero, è proprio quello di violare la citata riserva di legge. Non c’è dubbio infatti che, neppure laddove il GT volesse richiamare L. 180/78, questa non potrebbe trovare diretta applicazione in un comportamento positivo del rappresentante, dovendo il decreto autorizzativo limitarsi, se del caso, a concedere all’AdS la facoltà di impulso/sollecitazione all’attivazione della procedura prevista per il trattamento sanitario obbligatorio.
Si potrebbe opinare inoltre che la riserva di legge di cui all’art 32 della Costituzione, è ben tacitata dalla L. 145/2001 che ratifica e rende esecutiva la Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 istitutiva, all’art.6, di un potere apparentemente sostitutivo del consenso conferibile al rappresentante, ad un’autorità o ad una persona o organo designato dalla legge.
Da ciò il Giudice Tutelare, in quanto Autorità giurisdizionale, potrebbe” autorizzare l’AdS ad autorizzare” in rappresentanza del beneficiario, un determinato trattamento: fatto condivisibile e pacifico, laddove si verifichi un’impossibilità di prestare un consenso, ma di dubbia ammissibilità nel caso di aperto e forte dissenso espresso dal beneficiario. Da ciò, quand’anche si voglia riconoscere il pieno vigore normativo della Convenzione (limitato a “funzione ausiliaria sul piano ermeneutico” in assenza dei decreti attuativi, cfr. Cass. Civ. 21748/07) non si può non abdicare, pur con uno sforzo interpretativo, in favore di un carattere normativo generale della Convenzione stessa: determinativo di principi e criteri direttivi che trovano nella L. 180/78 specifica attuazione e soddisfazione in particolare laddove si concretizzi il rifiuto espresso del paziente in presenza di malattia mentale.
Da ultimo, il mancato recepimento da parte dell’art. 411 c.c. dei disposti di cui all’art. 371 c.c., in punto “collocamento” del beneficiario, è pacificamente superato dal mandato alle cure contenuto nella legge sull’AdS che consacra la centralità del “progetto di vita” a presidio della salute e del più ampio ed interessante concetto di qualità dell’esistenza.
Neppure in questo caso, opinando sul ricovero coatto in struttura, pena la violazione della riserva di legge, il GT potrebbe invocare in via analogica il 371 cc. (sapientemente escluso dal legislatore del 2004), né risolvere il conflitto a norma dell’art. 410 c.c..
Quali dunque le soluzioni concrete?
Taluno ha ritenuto di dare risalto, fra gli altri, ad un provvedimento, che mi sento di applaudire e con il quale Giudice Tutelare di Cosenza, dott. Carmelo Copani, ebbe a trattare la questione del consenso al ricovero del beneficiario in struttura (http://www.altalex.com/index.php?idnot=29172). A mio avviso il dato essenziale e non trascurabile del decreto del GT cosentino sta proprio nell’impostazione garantista che invoca, di riga in riga, la centralità di una scelta condivisa e di Equipe circa l’opportunità del protrarsi delle cure.
A ben vedere infatti il Giudice, in quel caso, non ha affatto autorizzato l’amministratore di sostegno a consentire, in luogo del beneficiario riluttante, un primo ricovero in struttura, bensì si è limitato a conferire un potere all’AdS di prestare un consenso alla prosecuzione di un trattamento avviato con l’unica procedura a mio avviso possibile (per quanto si vuol ritenere evitabile) del Trattamento Sanitario Obbligatorio di cui alla legge 180/78.
Sinteticamente è mio parere, modulato dall’esperienza di amministratore di sostegno, che d’innanzi ad un quesito di tale portata, sia opportuna una riflessione in scala di valori, opportunità e diritti, operando all’esito per buone prassi:
1. Accertare con l’Equipe multidisciplinare la volontà del beneficiario;
2. Presidiare la permanenza domiciliare conferendo adeguata assistenza sanitaria e socio assistenziale, con ricorso a tutti gli strumenti possibili (sussidi, FAP, convenzioni, volontariato);
3. Nel caso in cui l’Equipe multidisciplinare accerti i requisiti di imprescindibile necessità, urgenza ed in presenza di un verosimile vizio della volontà del beneficiario, attuare ogni strumento dialettico persuasivo idoneo ad evitare il ricorso a forme di intervento coatto;
4. In difetto informare il Giudice Tutelare circa la necessità del ricovero (in RSA o Struttura Protetta) rappresentando il dissenso del beneficiario (art. 410, secondo comma, c.c.) e chiedendo ove necessario, l’autorizzazione a sollecitare i sanitari rimettendo alla loro valutazione scientifica l’opportunità di applicazione della misura del TSO cui l’AdS parteciperà monitorando costantemente l’iter procedurale ed il rispetto delle garanzie a tutela della persona;
5. Contestualmente chiedere l’autorizzazione a proseguire, di concerto con l’equipe multidisciplinare, il progetto di vita e di cura avviato, associando per quanto possibile il beneficiario alle scelte.
In sintesi: in presenza di forte dissenso del beneficiario, altro è istruire il triplice presupposto alla base di una lecita limitazione della libertà di trattamento (necessità-urgenza, rifiuto, ed assenza di tempestive misure extraospedaliere) mediante un iter specifico e riservato (32. Cost e l. 180/78), creato convenzionalmente a garanzia dell’individuo, altro è recepire i risultati di quell’istruttoria ed essere autorizzati a proseguire il lavoro avviato.