Proviamo a vedere la procedura anche attraverso gli occhi e le emozioni dei beneficiari, passando in rassegna alcuni casi che li hanno visti, con alterne fortune, protagonisti.
I nomi sono di fantasia, i fatti realmente accaduti, la traccia è quella di alcune parole – chiave: un giudice tutelare diverso, ricorsi e decreti, patrocinio, audizione e istruttoria, notificazioni e pubblicità, rapporti con l’interdizione, reclami, costi, gratuità e indennità.
SOMMARIO
- Finche’ morte non ci separi. Ads e “dopo di noi”
- …… ma l’altro Giudice aveva deciso diversamente!
- Volevo stare un po’ da solo per pensare e tu lo sai
- Che il Signore mi accompagni
- Questione di feeling
- Giudice, perché’ non mi hai sentita?
- Può andare il capitano, carica il destro, il tiro, è gol, è gol, è gol, è gol, è gol!!!!!!
- Ho visto uccidere mio fratello
- La guerra del 40/45
- Lavoro, non ho le mani bucate, non accetto più l’inabilitazione
- Dà – me un beijo. Com’era prima del 2004
- Io voglio mia sorella
- L’insegnante di violino
1. Finche’ morte non ci separi. Ads e “dopo di noi” (parola chiave: un giudice tutelare diverso).
Classe 1925. “Ho una certa età, cominciano a mancarmi le forze, devo organizzare le cose per fare in modo che la mia Ida sia protetta nel modo più giusto”. Piera, vedova, ha il pensiero ricorrente all’unica sua figlia, Ida, che ha avuto in tarda età, fatto abbastanza raro per quei tempi. La ragazza, invalida civile al 100%, è affetta da insufficienza mentale, con turbe comportamentali e dell’umore. Non conosce il valore della moneta, va a fare la spesa per la mamma con i soldi necessari, lavora presso un centro diurno comunale.
Piera ha il sonno leggero, di notte a volte si sveglia e allunga la mano per accertare la presenza di Ida accanto a se’, che riposa beata. “Cosa ne sarà dopo di me?” – è la domanda martellante che si ripete Piera, come tutti i genitori di figli disabili.
Mamma e figlia vanno in un’associazione di volontariato, dove illustrano loro che la soluzione giusta potrebbe essere quella dell’amministrazione di sostegno. Ida, a cui viene spiegato il significato dell’iniziativa, firma convintamente il ricorso. Il giudice tutelare non solo nomina l’anziana e malandata mamma quale suo amministratore, ma anche, su richiesta, una cugina, legata ad entrambe, alla funzione di coamministratore.
Piera tira un sospiro di sollievo. “Che bella l’idea della cugina che mi sostituirà quando non ci sarò più! C’è proprio scritto nel provvedimento: “nei casi in cui dovesse per qualsiasi motivo essere impedito all’esercizio del proprio incarico”. Anche Ida avverte qualcosa di diverso nella sua mamma: la vede sempre premurosa e amorevole, ma più serena di prima. In fondo, pensa Piera dopo qualche mese, “mi mancano sempre più le forze, ma in paese la conoscono e i conti tornano sempre anche per la fiducia degli altri. E poi c’è sua cugina, così legata a lei”.
Forse nessuno, neanche Piera, poteva presagire che dopo soli quindici mesi la cugina sarebbe diventata l’(unico) amministratore di sostegno, con il doppio vantaggio di un “passaggio di grado” senza soluzione di continuità e di un’esperienza già maturata quale amministratore di riserva.
Ida oggi non ha più la mano della sua mamma che la cerca di notte, ma quella della cugina che l’accompagna nel “dopo di noi”. E Piera, ne siamo certi, sarà stata più sollevata, nell’andarsene dalla figlia, a sapere che questa opportunità era già in atto.
2. …….ma l’altro Giudice aveva deciso diversamente! (parola chiave: un giudice tutelare diverso).
“Nessun problema, signora, data l’età non più verde e gli acciacchi del papà e visto che ci tiene ad essere lui l’amministratore di sostegno della mamma, per ragioni affettive e di orgoglio, vediamo di fare richiesta fin dall’inizio di lei quale coamministratore, visto che in casi del genere il nostro Tribunale ammette questa possibilità”.
A Mario, 84 anni, brillano gli occhi, apprendendo dall’avvocato che non solo potrà essere lui ad amministrare la sua cara Anna, che ha visto via via aggredita da una demenza senile senza scampo, ma che potrà essere affiancato nel suo ruolo dalla figlia Antonella, pronta a sostituirlo alla bisogna nel caso in cui le sue condizioni di cardiopatico vadano peggiorando.
E poi, qual e’ il problema? La “coppia” sta già funzionando alla perfezione nell’amministrazione di sostegno dell’altra figlia, nella quale lui è titolare e Antonella la “riserva”, quale coamministratore.
Per il vero, sta per cambiare il giudice tutelare, ma è a tal punto consolidato l’orientamento locale sull’ammissibilità della figura del coamministratore di sostegno………
“Buongiorno, signor Mario, la Cancelleria mi ha comunicato la sua nomina ad amministratore di sostegno di sua moglie, ma non quella di sua figlia quale coamministratore. Il nuovo giudice tutelare, infatti, seguendo l’orientamento di un altro Tribunale, ritiene che la figura del coamministratore, non essendo prevista dalla legge, finirebbe per entrare in conflitto con la fisionomia dell’amministrazione di sostegno”.
Mario è una persona vigile e riflessiva. Prende atto, saluta e ringrazia l’avvocato. Depone il ricevitore e medita sulle stranezze della Giustizia: qualche tempo prima sua figlia era stata nominata coamministratore, oggi un giudice dello stesso Tribunale, per un’altra amministrazione “di famiglia”, dice che non è possibile. Si chiede chi abbia ragione.
3. Volevo stare un po’ da solo per pensare e tu lo sai (parola chiave: ricorsi e decreti)
Giovanni è una persona che si può definire, se non colta, quanto meno interessata. In pensione da poco, ma con il vizio del bere e con una sopravvenuta, seria patologia oncologica che colpisce a volte l’uomo a una certa età, Giovanni è afflitto da depressione (“umore deflesso” è scritto nei certificati). La casa è piccola, la moglie lo rimbrotta sempre, c’è un via e vai di persone e lui non trova pace. Pensa ai figli grandi, che sente molto poco e che non vede più, vivendo in un’altra città, anche se non distante. Ogni tanto dice che vuole andarli a vedere, ma nessuno gli dà peso.
Luisa è la moglie di Giovanni. Gli vuole bene, cerca di tenerlo su e di impedirgli di bere. Lo segue come un bambino nelle terapie. Gli centellina i soldi, solo per l’indispensabile, anche se lui, non si sa come, riesce a risparmiare anche su quello e corre a comprare bottiglie di vino di serie C.
Dov’è andato Giovanni? Non è rientrato a mezzogiorno. Non ha il cellulare.
“Papà cosa fai qui? A casa lo sanno? Vedi che non ti possiamo ospitare, siamo troppo stretti e poi abbiamo le nostre famiglie. Se proprio preferisci stare solo e non tornare a casa, ti portiamo alla Mensa del Centro San Giovanni Bosco, dove puoi stare per qualche giorno”.
Luisa stana subito il marito. Va sul posto per riportarselo a casa. Il guaio è che i religiosi che lo ospitano non glielo fanno vedere, ne’ le consentono di parlargli. “Vuole stare un po’ da solo”, le dicono.
Luisa si rivolge al giudice tutelare, che nel giro di un giorno e mezzo la nomina amministratore di sostegno provvisorio al fine di riportare Giovanni a casa onde consentirgli la prosecuzione delle terapie.
Giovanni è a casa. Non è più andato via. Ripensa a volte a quei giorni passati nella quiete pensosa della camera spartana che l’ha accolto durante la sua “fuga”.
“Volevo soltanto stare un po’ da solo”.
4. Che il Signore mi accompagni (parola chiave: ricorsi e decreti)
A ottantotto anni suonati il “Don” decide che è arrivato il momento di una sua protezione giuridica. Non tanto per l’età, essendo in discrete condizioni di salute psicofisica, quanto per l’imminente suo trasferimento da un immobile di proprietà della Diocesi, in cui ha vissuto per oltre mezzo secolo, a un Istituto per anziani distante venti Km dalla sua vecchia residenza e dalla Banca in cui ha sempre conservato i suoi risparmi. Venti km non sono tanti, in assoluto. Lo diventano, però, se non hai una vettura (ne’ la patente) e se le due località sono collegate in maniera non adeguata attraverso i mezzi pubblici di trasporto.
Limitazione della propria autonomia e difficoltà dell’amministrazione dei propri beni, unitamente alle evidenze anagrafiche, dunque, sono le basi che possono reggere la richiesta del “Don” al giudice tutelare. Il quale accoglie prontamente la domanda, compresa l’indicazione della persona da lui voluta quale amministratore, fortemente individuata in un “amico e vicino di casa da 57 anni”, che, con la sua famiglia, lo aiuta e lo assiste.
Comincia così una nuova fase della sua vita. Nell’Istituto si trova bene, lo chiamano giornalmente a celebrare la Messa nella cappella interna, l’amico-amministratore va spesso a trovarlo e lo scorrazza “avanti e indietro” in macchina. Che bello tornare nelle colline in cui ha vissuto! La vista dei dolci declivi e dei filari di viti lo fa sentire meglio. Lì, poi, si mangia bene in quasi tutte le trattorie. Altro che la minestrina che gli propinano nell’Istituto! E vuoi mettere un bicchiere di vino rosso buono, un bel Pinot nero, alla faccia di quello annacquato che gli danno nel Pio ricovero.
Le cose non vanno poi male da amministrato, non è cambiato nulla rispetto a prima, a parte la mancanza delle colline, della cucina un po’ grassa delle trattorie e del Pinot Nero. Riesce perfino a ottenere dal Giudice un’autorizzazione successiva a prelevare somme fino a un importo annuo da destinare in beneficenza a Enti Religiosi o a famiglie bisognose, come aveva sempre fatto in precedenza.
Tuttavia il “Don” non è convinto: è autonomo in tutte le attività della vita, addirittura va a concelebrare la Messa anche nella parrocchia del paesello, in banca fa ancora tutto lui, salvo essere accompagnato dall’amministratore di sostegno, divenuto a questo punto un semplice autista. E’ lui che gli apre gli occhi: “Don, ma a cosa le serve l’amministratore?”
Presentano congiuntamente la domanda di revoca dell’amministrazione di sostegno, quando il “Don” ha già compiuto novant’anni. La domanda viene accolta, perché’ il beneficiario è capace “di attendere in modo cosciente e responsabile alle proprie esigenze quotidiane” e anche in considerazione del rapporto di amicizia fra le parti. Oggi il “Don” è così tornato a tutti gli effetti libero cittadino.
5. Questione di feeling (parola chiave: patrocinio)
Carlo è un arzillo e fiero vecchietto. E’ lucido al punto da ricordare perfettamente non solo il passato lontano, ma anche le cose odierne. Certo, non ce la fa sempre da solo, le gambe non lo sostengono come una volta e una signora lo aiuta nella spesa e nelle faccende domestiche. Per il patrimonio no, Carlo lo gestisce personalmente e poi c’è un vecchio e fidato conoscente, il tipico “signore della porta accanto”, a cui vuole conferire una procura per le operazioni bancarie e postali, non si sa mai che scatti improvviso il bisogno.
Il prescelto è a tal punto disinteressato da rifiutare la procura, avendo sentito parlare di un rimedio più corretto e idoneo per le necessità di Carlo, ossia l’amministrazione di sostegno. Carlo non ha più nessuno al mondo e, attraverso il proprio difensore, chiede che sia nominato un vicino fidato quale suo amministratore di sostegno. Il giudice li sente e Carlo precisa lucidamente di aver bisogno solo di un appoggio, di chi gli dia un consiglio, lo accompagni a eseguire le operazioni o le faccia in sua vece, in caso di impedimento.
Il giudice tutelare nomina l’amico ma confeziona, nella sostanza, un’amministrazione assai più di rappresentanza che di assistenza, così tarpando le ali al povero Carlo. L’effetto è che nascono conflitti interpretativi fra questi e l’amministratore sui rispettivi ruoli e sull’atteggiamento della banca e dell’ufficio postale. Carlo vuole la sua autonomia, l’amministratore di sostegno non ne vuole sapere, la banca e la Posta interpretano restrittivamente i (pochi) spazi riservati al beneficiario. Il quale torna così dall’avvocato, che presenta un’istanza di revoca della misura o, al limite, di rivisitazione delle modalità di protezione, con altro amministratore. E così il giudice tutelare, non ritenendo di privare Carlo di un sostegno, rimodella la misura tenendo conto dei di lui desideri e bisogni e nominandogli un professionista quale nuovo amministratore, essendo venuto meno il feeling con il precedente. “Mi avevano detto che potevo fare i ricorsi da solo, ma se non avessi avuto l’avvocato…….”.
Carlo può così tornare in banca da solo, svolgendo quelle operazioni (e per quelle somme) consentite dal nuovo decreto. L’amministratore di sostegno è sullo sfondo – e Carlo lo sa – pronto a intervenire in caso di suo bisogno o per quei pochi ma rilevanti ambiti per i quali il decreto di nomina prevede la sua presenza.
6. Giudice, perché non mi hai sentita? (parola chiave: audizione e istruttoria)
Alessandra beve a scatti una Red-Bull direttamente dalla lattina. Non fa nulla per nascondere il suo nervosismo e il suo disagio. Anzi, sembra che li voglia marcatamente accentuare. Sono circa le dieci del mattino.
Il suo eloquio è forbito, lo sguardo a tratti assente. Buon voto alla maturità, studia all’Università (sarebbe meglio dire che è iscritta). Si è lasciata andare. Le compagnie non sono poi quelle tanto giuste, c’è una dipendenza (anche se pare cessata) da droghe. Spende anche un pò “a vanvera”.
Si è ritrovata amministrata, lo ha saputo dalla parente nominata alla funzione. Glielo ha comunicato a tavola. “Da oggi righi dritto, perché decido io per te”. L’avvocato guarda, incredulo, il foglio che Alessandra le ha passato. Si informa. Non ci può credere. Il giudice tutelare ha aperto in fretta e furia l’amministrazione di sostegno definitiva in favore (sic) di Alessandra, solo sulla base delle dichiarazioni rese dalla famiglia senza alcun serio supporto documentale e senza che la sventurata fosse stata convocata e, ovviamente, sentita. A nessuno, evidentemente, interessava il microcosmo dei suoi conflitti familiari e con il mondo esterno, dei suoi bisogni, dei suoi desideri e delle sue aspettative.
Alessandra conosce così la fase del reclamo. A tal punto fondato, non potendosi ammettere che il giudice apra un’amministrazione stando solo a quel che dice la famiglia, da indurre quest’ultima – e lo stesso giudice tutelare – a evitare la decisione della Corte rivedendo l’originario atteggiamento con la revoca della misura disposta, sia pure attenuata, con soddisfazione di tutti, da un rimedio di più blanda destinazione patrimoniale, di durata determinata.
7. Può andare il capitano, carica il destro, il tiro, è gol, è gol, è gol, è gol, è gol!!!!! (parola chiave: audizione e istruttoria)
Il giudice tutelare è tra il frettoloso e il compassionevole. Ha davanti Luca, ragazzo autistico, in mezzo ai suoi genitori, il padre ricorrente e la madre indicata quale amministratore di sostegno. Un quadro di famiglia che spesso si ripete.
Luca non nasconde per niente la sua fede calcistica. Sul cappellino svettano logo e colori dell’Internazionale di Milano. Ricorda Eto’o (vorrei vedere che fosse il contrario), ma il suo idolo è il Capitano.
Il giudice si rivolge prima a Luca, che non risponde. Poi sente i genitori, che illustrano le ragioni del ricorso e lo stato di salute del figlio. Improvvisamente, Luca esclama: “quelli del bar mi chiamano interista di m……… Mi dicono anche mongoloide”.
Il giudice si anima e approfondisce, strappando altre notizie inquietanti al ragazzo. Ne emerge un mix di bullismo, di sventura umana e di discriminazione tale da indurlo a invitare verbalmente la madre, quando avesse assunto la funzione di amministratore di sostegno a rivolgersi ai Servizi Sociali e all’avvocato per far cessare questo odioso stato di cose, fonte di così grande turbativa per Luca. L’udienza è tolta. “Luca, saluta l’avvocato” – lo invita la mamma. Luca si avvicina e lo abbraccia “Domenica a Udine vinciamo. Ma giocherà il Capitano?”
8. Ho visto uccidere mio fratello (parola chiave: notificazioni e pubblicità)
Gracanica, Bosnia-Erzegovina, prima metà degli anni novanta.
Dragan procede lungo il marciapiede, rasente il muro del perimetro dell’ospedale. Sua sorella Suzana lo segue. Stanno andando a trovare la loro mamma, che un male incurabile sta strappando al loro affetto. Per motivi di sicurezza non possono avvicinarsi all’ingresso in macchina. Il timore di un’autobomba è molto elevato. Suzana è terrorizzata: ha sentito parlare della presenza di cecchini. Cerca di allontanare da se’ la paura pensando a Goran, suo figlio adolescente, che si trova in una località più tranquilla, da parenti. Dragan si gira ogni tanto verso di lei per rincuorarla, sorridendole. All’improvviso due colpi sordi in rapida successione e Dragan sparisce dalla sua vista. Subito dopo, un terzo colpo, uguale, e qualcosa finisce la sua corsa nel muro, a pochi centimetri da lei. Si butta istintivamente a terra e finisce addosso a un corpo inanimato. In seguito ricorderà soltanto di aver gridato in continuazione il nome di suo fratello e di avere toccato quel corpo qua e là e poi di averlo scosso, disperatamente, inutilmente, avvertendo al tatto soltanto qualcosa di caldo, di tremendamente simile al sangue.
“In inglese, the snipe è la beccaccia. E il verbo to snipe significa “sparare da una posizione nascosta”, proprio come si fa con le beccacce. Ma come si fa a uccidere, se la beccaccia ti sta sorridendo?” (Gino Strada, Pappagalli verdi, Feltrinelli ’99, 153).
Pianura Padana, anno 2006.
Non ci sono più le autobombe, ne’ i cecchini, non c’è più Dragan.
Marko e Suzana si sono rifugiati in Italia da un po’ di anni con Goran, che adesso, ragazzo di quasi ventidue anni, è ritornato in Bosnia, dove sta lavorando come operatore televisivo. Vivono in collina, in una casa colonica. A Suzana fanno compagnia solo gli animali da cortile, quando a Marko la ditta assegna trasporti all’estero, che lo tengono assente da casa per qualche giorno.
Suzana non torna volentieri in Bosnia: il ricordo del fratello che cade davanti ai suoi occhi le è sempre nitidamente impresso, anche se l’iniziale grave depressione che l’aveva colpita nell’immediatezza è passata alla fase del progressivo decadimento cognitivo per finire nella demenza degenerativa. Le porte dell’amministrazione di sostegno si spalancano a Suzana, riconosciuta invalida al 100%, per la necessità di aprire un conto corrente a lei intestato per farvi accreditare la pensione e l’indennità di accompagnamento. Il ricorso è presentato al “minimo sindacale”: Marko è al tempo stesso ricorrente e papabile amministratore. L’audizione è un momento di grande emozione, che investe anche il giudice tutelare. Alla domanda se non vi siano altri parenti, Marko risponde che no, non ce ne sono, avendo Suzana perso i genitori e il fratello più giovane e volendo entrambi evitare che il figlio Goran veda la madre in quello stato in un tribunale estero. Il giudice non batte ciglio. Suzana, sentendo il nome di Goran, ha un sussulto. Poi riprende lo stato di catalessi. Il giudice indaga su come e dove vive Suzana e da chi è assistita quando il marito è fuori per lavoro.
“La porto con me” – dice Marko – “il mio titolare è molto comprensivo e lascia che io porti Suzana nei viaggi. La cuccetta del camion è comoda, la cabina è condizionata per l’estate e abbiamo un fornelletto mobile per farci da mangiare, così non la lascio mai sola”. Il Giudice chiude lì il verbale e l’incontro, riservandosi di provvedere. Suzana, grazie a Marko – amministratore di sostegno, ottiene pensione e indennità. Ne gode per poco.
Nel 2011 ritorna per sempre in Bosnia. Nel cimitero di Gracanica è sepolta nella tomba retrostante quella di Dragan. Sono in fila indiana, come quando, anni prima, percorrevano quel marciapiede ignorando di incontrare sul loro cammino chi non si faceva scrupolo di sparare alla beccaccia che gli stava sorridendo.
9. La guerra del 40/45 (parola chiave: rapporti con l’interdizione)
Emilio, anni novantacinque, è un vecchio ex alienato mentale in forza della legge 36 del 1904 (quella sui manicomi e sugli alienati), poi abrogata dalla legge 180 del 1978. Lo stato di alienato, così come la pensione privilegiata di guerra, sono un “regalo” del conflitto bellico, che ha visto Emilio impegnato su alcuni fronti caldi, tra scoppi di granate, sventagliate di mitragliatrici nemiche e agguati evitati per un niente. Il rientro a casa in condizioni psichiche assai precarie gli è valso il marchio di “alienato”, cancellato dopo qualche decennio dalla provvidenza della legge Basaglia.
Emilio se la cava abbastanza bene da solo, tale essendo rimasto da qualche anno a seguito della scomparsa della sorella, con lui convivente. Ha una robusta squadra di nipoti, qualcuno dei quali vorrebbe farlo interdire (“tanto era già sotto tutela prima! Figuriamoci oggi, a novantacinque anni”). Fortunatamente c’è chi non la pensa così e si rivolge all’avvocato, che propone senza indugio l’amministrazione di sostegno. Nulla di più azzeccato! Nell’udienza, infatti, l’arzillo vecchietto, sentito dal giudice tutelare, dà spettacolo: riferisce di vivere solo, di saper cucinare e di andare all’osteria, non riconosce le banconote, dice di comprare il Corriere, che “costa un euro che è una moneta di metallo” e di non prendere medicine. Alla domanda (non pertinente) sul perché non si sia sposato, risponde che c’era andato vicino una volta con una signora di un paese limitrofo, ma “non è andata bene”. Emilio scivola poi sul mancato riconoscimento di alcuni dei nipoti presenti e sulla confessione circa le cure con il solo rimedio della “piramide”, da lui definito rimedio naturale e consistente nel mettere una sua foto sotto una piramide per non ammalarsi.
Un po’ poco, avrà pensato il giudice tutelare, per un novantacinquenne solo. Di qui l’apertura dell’amministrazione di sostegno (altro che interdizione!), con nomina di un professionista estraneo alla famiglia, a causa del clima di sfiducia e di iniziale contrapposizione tra i suoi nipoti.
Verrebbe da dire che, dopo il conflitto bellico, Emilio ha saputo far fronte anche a quello parentale.
10. Lavoro, non ho le mani bucate, non accetto più l’inabilitazione (parola chiave: rapporti con l’interdizione)
Si presenta all’udienza con un libro di Paola Mastrocola (“Lo leggo un poco per volta, mi sta piacendo”). Non ha più nessuno al mondo, Betty, pur a soli quarantatre anni. In due anni ha perso i genitori e sette anni dopo è rimasta vedova. Vive in un Istituto, lavora part time presso l’Ausl locale, è nota ai Servizi Sociali, necessitando di assistenza domiciliare, e al Centro di Salute Mentale, presentando un quadro clinico psichiatrico complicato, con insufficienza mentale.
E’ stata dichiarata inabilitata dieci anni prima e oggi, pur nel peggioramento delle sue condizioni, intende approfittare dei sopravvenuti impegni lavorativi del curatore (sua cugina Roberta) non solo per sostituire quest’ultima, ma anche per cambiare misura di protezione.
Vengono così presentati due distinti ricorsi, uno al giudice tutelare per la nomina dell’amministratore di sostegno, l’altro al Tribunale per la revoca dell’inabilitazione. Viene dapprima nominato quale amministratore di sostegno un professionista estraneo alla famiglia, che possa operare non appena revocato il precedente strumento di protezione. Con successiva sentenza il Tribunale revoca l’inabilitazione semplicemente in considerazione della novità rappresentata dallo ius superveniens (L. 6/2004) – e pur con condizioni di salute rimaste immutate o aggravate – rilevando che “se così non fosse si verificherebbe un ingiustificato differente trattamento fra soggetti in condizioni di difficoltà del tutto analoghe, solo perché le loro problematiche sono state sottoposte alla valutazione del Tribunale in epoche differenti”.
Betty avrà terminato la lettura del libro di Paola Mastracola. Aveva detto di voler leggere, della stessa autrice, “Più lontana della luna”. Chissà se anche lei starà sognando quell’ “amore da lontano” che Lidia, la protagonista del libro, cerca dapprima con frenesia e poi attende emozionata.
11. Dà – me un bejo. Com’era prima del 2004 (parola chiave: rapporti con l’interdizione)
Non è stato facile per Mario lasciare il Brasile, dove era emigrato da giovane con la moglie per fare fortuna, dove erano nati i suoi tre figli, dove aveva lavorato sodo fino a mettersi in proprio, così consentendo a lui e alla sua famiglia un’esistenza più che dignitosa.
A Mario tornare nel paese natìo, in Italia, sembrava un tradimento nei confronti di una terra che aveva dato tanto a lui e alla sua Carla, arrivati lì quasi alla fame.
Purtroppo Carla se n’era andata e lui era rimasto solo con la figlia più giovane, Donatella, nata cerebrolesa. Gli altri figli si erano trasferiti da tempo in località diverse e lontane del Brasile, per lavoro e per affetti.
Mario ha mantenuto legami con i parenti italiani, facendo quasi ogni anno ritorno nel paesello collinare per trascorrervi le vacanze. Soprattutto questi legami lo hanno determinato al ritorno delle origini, in un ambiente più tranquillo e più protetto per Donatella e in uno Stato più all’avanguardia nella tutela dei diritti delle persone disabili.
Il tempo di organizzare la sua venuta definitiva ed ecco che, volendo Mario acquistare una casa da intestare (o cointestare) a Donatella, viene messo davanti alla necessità di richiedere per lei una misura di protezione giuridica. Siamo nel 1988 e il nome che sente è di quelli che pesano come un macigno: interdizione.
Mario non ha studiato, ma impiega poco a capire che quel termine evoca qualcosa di brutto e di impeditivo per chi ne subisce gli effetti. Comunque decide di farvi ricorso, nella speranza di un futuro più protetto per Donatella.
Il giorno dell’udienza in Tribunale si presentano padre e figlia. Il giudice tenta vanamente l’esame di Donatella, che per tutto il tempo pare un convitato di pietra. Alle domande risponde puntualmente Mario, che per dimostrare che la figlia non ne comprende il significato, procede alla loro traduzione simultanea in portoghese. L’unica reazione suscitata è che Donatella, sentendo la voce del padre, si gira verso di lui, in silenzio.
Poi, improvvisamente, il colpo di scena. Mario, rivolto al giudice, esclama: “C’è una sola cosa che mia figlia capisce. Guardi” E, rivolto alla figlia, “Donatella, da ’- me un bejo” (ndr dammi un bacio). E qui interviene, se non un miracolo, almeno uno dei momenti di più intensa emozione vissuti in un’aula giudiziaria da quel giudice e da quell’avvocato. Donatella sembra pensarci un momento, poi si piega teneramente verso il padre baciandolo sulla guancia.
Il silenzio cala nella stanza, interrotto solo dalla ripresa del ticchettio delle dita del giudice sulla tastiera del computer per terminare la compilazione del verbale.
Pubblicata la sentenza, Mario acquista la casa per se’ e per Donatella. Abitano lì, insieme, per un po’ di anni. Poi Mario muore. La ragazza finisce in un Istituto e il papà viene sostituito nelle funzioni tutorie da un’amorevole cugina.
L’auspicio è che prima o poi Donatella possa liberarsi dalle catene dell’interdizione, venendole consentito di accedere all’amministrazione di sostegno che, vista la non complessità del suo patrimonio e l’assistenza e la protezione che le vengono garantite dalla permanenza nella Casa Protetta, si profilerebbe la misura più idonea per la sua salvaguardia.
12. Io voglio mia sorella (parola chiave: reclami)
Un tempo andava ad aiutare la sorella nel bar, a pochi passi da casa. Chi ha detto che le persone Down non sono capaci di fare un caffè o di servire al tavolo, di prendere un’ordinazione o di preparare un panino?
Erano tempi belli, quelli, in mezzo alla gente tutto il giorno. Poi a Raffaella, che evidentemente aveva un conto aperto con il Destino, hanno diagnosticato (anche) l’Alzheimer e a quel punto la nebbia è calata inesorabile nella sua mente, oscurandole quei piaceri e impedendole di godere, consapevole, dei rapporti che si instauravano in quel bar, crocevia di frequentazioni variegate.
Due cose, però sono rimaste immutate a contribuire al mantenimento della qualità della vita della sventurata: l’affetto dei fratelli (la sorella Paola è da sempre convivente con lei) e il piacere di una scampagnata in macchina, quando le viene la voglia e la sorella può farsi sostituire nel bar. Raffaella conosce a memoria tutte le piante e tutte le curve di quel tratto di vallata, costellato da saliscendi che accarezzano distese di campi.
E’ da qualche tempo, però, che la vecchia Yaris ha qualche acciacco. Una delle ultime volte non si è messa in moto, lasciando così a terra Raffaella e i suoi desideri. Per la sorella (e per i meccanici) è arrivata l’ora di cambiare la macchina.
Paola viene a sapere dell’esistenza di una legge – una delle tante a favore delle persone disabili – che consente di ottenere alcune agevolazioni fiscali (IVA ridotta, esenzione dal bollo, ecc.) intestando la vettura alla persona disabile, se titolare di un reddito o, in difetto, a un familiare. Raffaella è titolare di reddito, quindi occorre intestare la vettura a lei. Quanto al prezzo, in parte viene pagato con somme prelevate dal c/c comune delle sorelle, in parte con finanziamento bancario, appoggiato sul c/c comune ma intestato necessariamente alla sola Raffaella, unica intestataria del mezzo.
La rete familiare decide anche di chiedere per Raffaella l’amministrazione di sostegno. Non si sa mai che occorra per la prestazione del consenso informato, visto il graduale peggioramento delle sue condizioni di salute psicofisica.
Il fratello, ricorrente, indica ovviamente la sorella Paola quale amministratore di sostegno. Il giudice tutelare ci mette poco a istruire quel procedimento. Ha davanti il classico quadro di famiglia che garantisce la massima protezione per l’amministranda; ci sono anche alcuni nipoti, che confermano il ricorso. Per l’avvocato è il solito cliché. Sbaglia di grosso.
Il giudice, infatti, ergendosi a paladino della beneficiaria e a censore di quella che gli pare un’improvvida operazione della sorella, che ha fatto intestare la vettura alla persona disabile, che non la può guidare (“…tenuto conto delle condizioni di salute della beneficiaria…..che non le consentono – sicuramente – di avere la patente di guida, né di asserire chi fosse alla guida in caso di contravvenzione stradale”), apre l’amministrazione di sostegno, ma nomina quale amministratore, in luogo dell’amorevole sorella Paola, un professionista esterno.
Pensiamo per un monento a Raffaella: da oltre cinquant’anni convive con Paola, che l’accudisce dalla morte dei genitori, la scorrazza non solo lungo i dolci declivi collinari ma anche per consentirle di frequentare durante la settimana un centro diurno in un paese vicino e ha pure deciso di cambiare casa, locando a terzi la storica abitazione di famiglia per prendere in locazione un appartamento più consono alle attuali difficoltà di deambulazione della sorella disagiata. Oggi, invece, Paola si trova esclusa dall’amministrazione (che significa anche cura della persona, Signor Giudice!), inesorabilmente bocciata come accade per i familiari in conflitto, per quelli inadeguati o per quelli disonesti! Siamo proprio sicuri che in un caso del genere l’amministratore estraneo alla famiglia sappia meglio interpretare la colonna sonora dell’amministrazione di sostegno? “Tu che conosci il mare, portami via con te dove la notte è chiara e il cielo è più vicino. Tu che conosci il mare e le stelle come guida, prendi quel timone e insegnami la via” (Gli aironi neri, di Beppe Carletti, Augusto Daolio, Dodo Veroli).
Crediamo che se Raffaella ha mantenuto un qualche barlume di lucidità si possa interrogare sul perché’ le leggi che stabiliscono agevolazioni in favore delle persone disabili siano così poco conosciute nelle aule giudiziarie. O, più semplicemente, possa chiedersi cosa hanno fatto di sbagliato lei e l’inseparabile sorella Paola per meritare questo castigo.
Per evitare questa sorta di ritorno al passato, a quando il male era “considerato come attributo del singolo, solo, unico con le sue disabilità metaforiche o reali” e con “spostamento dalla collettività all’individuo, dalle colpe generali dell’intero corpus sociale a quelle squisitamente individuali” (Matteo Schianchi, Storia della disabilità – Dal castigo degli Dei alla crisi del Welfare, Carocci, 2012, 65), la famiglia ha proposto reclamo. E’ in attesa dell’udienza.
13. L’Insegnante di violino (parola chiave: costi, gratuità, indennità)
La sala è ben arredata. Due cassettoni di sicuro pregio spiccano fra i mobili d’epoca. L’unico oggetto che richiama il periodo odierno è una poltrona relax per anziani e disabili.
La poltrona è occupata da Albertina, detta Tina, lì “inchiodata” durante il giorno da una demenza senile progressiva che le ha intaccato anche la locomozione. Tina è accudita, a rotazione, dai figli, che abitano tutti nelle vicinanze, e da due badanti, capaci e fidate, come persone di famiglia.
Oggi nella sala c’è anche l’amministratore di sostegno, professionista estraneo al nucleo familiare, i cui membri non sono stati ritenuti idonei alla funzione in ragione di un parziale conflitto interpersonale in atto tra loro e della necessità del compimento di numerosi complessi atti divisori di beni in comunione indivisa fra tutti i familiari, mamma compresa.
Il professionista si trova lì per sincerarsi delle condizioni di Tina, anche se sa bene che la cura della persona è svolta amorevolmente e professionalmente dalla rete assistenziale di casa, e per parlare con i figli di Tina delle prossime, decisive e conclusive formalità notarili che riguardano tutti, mamma compresa. Ancora una volta è colpito dal tripudio di foto, racchiuse in eleganti cornici d’argento, una finanche delle dimensioni di un quadretto, che ritraggono Tina con un violino. “Era insegnante di violino” – ribadisce uno dei figli. “Ancora oggi, talvolta, le facciamo sentire la musica di violino, perché’ siamo convinti che la mamma la percepisca e le faccia piacere”.
Non dicono che la musicoterapia favorisce a volte il risveglio dal coma? Certo, l’Alzheimer è un’altra cosa, ma vogliamo pensare che Tina avverta ancora la vibrazione provocata dallo scorrere dell’archetto perpendicolarmente alle corde dello strumento e che la musica, la bellezza, l’armonia e la creatività possono essersi fatte spazio anche in un contesto in cui la nebbia della mente la fa da padrona.
Di sicuro il violino, compagno inseparabile di Tina nelle foto ben esposte in sala e nel sollievo che i figli si augurano possa darle anche oggi la musica che esso diffonde, non è “assurdo come una pianta di rose in un porcile” (Maria Angels Anglada, Il violino di Auschwitz, Rizzoli).
L’amministratore di sostegno ha riunito i figli anche per un’altra ragione. Dopo avere svolto per anni il ruolo assegnatogli dal giudice tutelare sottoscrivendo atti notarili, altri dovendone ancora stipulare conclusivamente a breve, firmando convenzioni con Enti Pubblici e con società private, concludendo o risolvendo contratti di locazione, accedendo a svariati uffici pubblici e rapportandosi con svariate figure tecniche, ritiene che sia arrivato il momento di tirarsi indietro. Ha portato a compimento la sua “missione” e il giudice tutelare gli ha periodicamente liquidato un’equa indennità in considerazione della complessità degli interventi, del valore del patrimonio e dei risultati raggiunti. Venute meno le ragioni di incompatibilità alla nomina di uno dei figli, ritiene più corretto che sia uno di loro a occuparsi della gestione (anche patrimoniale) della mamma. Li invita, pertanto, a mettere da parte eventuali scorie di passati risentimenti e a valutare fra loro chi possa subentrargli quale amministratore di sostegno. La si chiami coerenza, in nome di una rete familiare funzionante, che non ha più senso che sia esautorata dalla gestione del patrimonio della mamma, o la si intenda quale opportunità di evitare spese di amministrazione da parte di terzi, non importa. Sembra che anche Tina abbia avuto un impercettibile cenno di assenso. O sarà stato il frutto della sua impressione di aver sentito, in lontananza, le note di un violino?
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La carrellata di casi decisi fa riflettere sull’importanza di una procedura “umanizzata”. Sappiamo bene che anche il giudice tutelare deve applicare la legge. Tuttavia esistono tanti varchi, in un procedimento che mette al centro dell’attenzione la persona (e non più solo la patologia o il patrimonio), nei quali possono, più che altrove, trovare ospitalità il buon senso e l’occhio di riguardo a quei “bisogni, aspirazioni e richieste” del beneficiario di cui la stessa legge impone di tenere conto. Anche la ratio legis, poi, esige la sua parte e non è una parte di poco conto, trattandosi di un criterio interpretativo posto sullo stesso piano del “significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Se poi aggiungiamo che la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi per la prima volta in materia di amministrazione di sostegno, ha definito l’art. 1 della legge 6 del 2004 “stella polare” che deve orientare l’interprete nell’applicazione della stessa (Cass. 12 giugno 2006 n. 13584), il quadro contrario alla “burocrazia” interpretativa è completo.
Perché tutto questo fervore?
Perché stiamo parlando, fatte le debite proporzioni territoriali, della “Terza nazione del mondo” (Matteo Schianchi, Feltrinelli, 2009): le persone disabili rappresentano il 10% della popolazione globale e, insieme, darebbero vita al terzo Paese del mondo, dopo Cina e India. Limitandoci all’Italia, essendo i disabili circa sei milioni, popolerebbero la seconda regione, dopo la Lombardia. Se poi alla disabilità aggiungiamo le diverse sfaccettature del disagio e della dipendenza umana, potremmo, e sempre fatte salve le debite proporzioni territoriali, finanche avvicinarci alla (o superare la) seconda nazione del mondo.
Per questo, in conclusione, vale la pena battersi, in un ambito, quello processuale, che prima facie potrebbe apparire solo destinato ad aride, sia pure interessanti, disquisizioni di ordine tecnico-giuridico.